sabato 28 luglio 2018
Giovanni Paparcuri sopravvisse nel 1983 all'attentato esplosivo della mafia che uccise il giudice e altre tre persone. L'irriconoscenza dello Stato e l'incontro con Falcone e Borsellino
Il giudice Rocco Chinnici

Il giudice Rocco Chinnici

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La vita gli ha concesso una seconda possibilità e lui ne ha fatto un capolavoro. È diventato un libro di memoria vivente, accompagna per mano migliaia di persone di ogni età e provenienza geografica a immergersi in quelle terribili estati insanguinate degli anni Ottanta e primi Novanta, in cui, titolavano i giornali, Palermo era diventata come Beirut. Giovanni Paparcuri, dipendente del ministero della Giustizia oggi in pensione e autista del consigliere istruttore Rocco Chinnici, offre la sua testimonianza per mostrare al mondo la profondità umana e professionale di chi ha dato la vita per la giustizia, custodendo fascicoli e documenti, fotografie e oggetti appartenuti ai magistrati palermitani sacrificati sull’altare della lotta alla mafia.

Paparcuri, quel 29 luglio 1983, si trova in via Pipitone Federico, alla guida dell’Alfetta blindata che avrebbe dovuto prelevare a casa Chinnici per condurlo al Palazzo di giustizia di Palermo. Ma l’esplosione di una Fiat 126 verde imbottita di tritolo, parcheggiata davanti all’abitazione, trasforma quella strada del centro in uno scenario di guerra, lasciando sul selciato il fondatore del pool antimafia, ucciso all’età di 58 anni, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere del condominio, Stefano Li Sacchi. Giovanni Paparcuri, seduto nella blindata per posizionare la ricetrasmittente, viene investito dall’esplosione, ma sopravvive.

«Un’accecante luce bianca in fondo a un tunnel. Così ho visto la morte, per poi tornare alla vita – racconta Paparcuri continuamente, soprattutto ai giovani delle scuole –. Sì, certo, mi sono reso conto della fortuna di essere rimasto vivo. Ma ho anche pensato e penso ancora, quasi con un senso di colpa che non dovrei provare e che in questi anni è stato alimentato da qualcuno, ai tanti, troppi orfani di quella terribile strage». Due dita della mano destra riattaccate, schegge conficcate nelle tempie, il gomito spappolato, timpani perforati, un fischio continuo sono le ferite della violenza di Cosa nostra che Paparcuri porta sul suo corpo.

Ma proprio un momento prima di entrare in sala operatoria nel reparto di Neurochirurgia al Civico, il futuro gli viene incontro. Paolo Borsellino, uno dei magistrati del pool di Chinnici, lo raggiunge in ospedale: non conosce Paparcuri ma vuole incoraggiare l’unico sopravvissuto di quella strage. «Sento dire all’infermiere: "Aspetti un attimo". Malgrado abbia schegge dappertutto, non riesco a sentire dolore, fino a quel momento – dice l’autista toccandosi ancora il torace –. Il primo dolore me lo fa sentire proprio Borsellino, appoggiando le mani sul mio petto per dirmi "coraggio". Sento il petto trafitto da mille pugnali, grido come un pazzo. Lui diventa piccolo piccolo e si scusa. Io ripeto con un filo di voce: "Non si preoccupi". Per me quel momento è una specie di contratto, un patto di sangue tra veri uomini d’onore».

Giovanni Paparcuri trascorre un mese ricoverato tra Neurochirurgia e Chirurgia plastica, poi un anno e mezzo di convalescenza. «Mi vogliono riformare, ma io desidero tornare al lavoro. Il ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli, mi incontra dopo la strage di via Pipitone Federico e mi dice che, non potendo più fare l’autista, mi avrebbe fatto fare il dattilografo. E, invece, il giorno del mio compleanno del 1985 mi viene recapitato il decreto che mi retrocede a commesso». Questo è ciò che lo Stato, in quegli anni, riserva ai sopravvissuti. Nel 1985 viene assegnato all’Ufficio Istruzione di Palermo, nella sezione contro ignoti che si occupa di furti e rapine. Ma Giovanni Falcone (di cui Paparcuri è stato autista proprio prima della strage Chinnici) e Paolo Borsellino intercettano subito la sua dimestichezza con i primi rudimenti di informatica e gli chiedono di lavorare al loro fianco per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso, che nel 1986 porta alla sbarra 475 imputati per mafia.

Due anni fa quel “bunkerino”, la stanza numero 64 dell’ammezzato del Palazzo di giustizia, è tornato a vivere grazie alla Corte d’appello, all’Anm e all’impegno di Giovanni Paparcuri, che ha ricostruito pezzo per pezzo ogni angolo di quell’ufficio, raccogliendo oggetti e testimonianze (c’è perfino la bobina della registrazione delle minacce ricevute dal consigliere Chinnici), ma soprattutto diventandone la guida insostituibile per i tantissimi visitatori che ogni giorno chiedono di entrare nel "Museo Falcone e Borsellino", tra quelle pareti che hanno fatto la storia della lotta alla mafia.

In quel “bunkerino” Giovanni Paparcuri ha la sensazione di aver reso compiuto ciò che le morti di Chinnici, Falcone, Borsellino avevano lasciato in sospeso. Su una parete ha appeso la foto dell’Alfetta blindata devastata dall’autobomba: «Quelle due grandi chiazze sull’asfalto sono il mio sangue». Un racconto doloroso ma liberatorio, «mi aiuta tantissimo, come quando si va dallo psicoterapeuta. Ripercorrere quelle esperienze fa male, ma parlarne mi ha permesso di superarle».

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