martedì 11 dicembre 2018
Viaggio nella “piccola Roma” d’Africa, fino al 1975 abitata da migliaia di nostri connazionali. Le ferite della guerra e del regime, la generazione “perduta” di chi è andato via
Ritorno al cuore dell'Eritrea. Così la speranza parla italiano
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Dimenticata e nel buio per oltre un decennio, Asmara sta tornando sotto i riflettori. Sotto quelli mondiali dopo la pace miracolosa con l’Etiopia a luglio e dopo l’apertura dei confini chiusi da 20 anni a settembre. Per gli italiani è invece tornata nei motori di ricerca per il discusso video 'Chiaro di luna' di Jovanotti, ambientato tra i decadenti palazzi razionalisti del centro costruiti dal fascismo e tra la gente comune. Per il governo italiano il ritorno di interesse per i rapidissimi mutamenti nel Corno d’Africa è stato certificato dalla visita lampo del premier Conte ad Addis Abeba e all’Asmara a metà ottobre e da lunedì 3 giovedì 6 dicembre da una missione pioniera culturale ed economica della viceministra degli Esteri Emanuela del Re per cogliere le opportunità offerte dalla riammissione del-l’Eritrea nel mondo globale a seguito della caduta delle sanzioni Onu per la vendita di armi alle milizie islamiste di Al Shabaab in Somalia. Roma è stata assente troppo a lungo, ora entrambe le parti vogliono aprire una nuova fase.

È grazie alla missione che Avvenire, primo quotidiano italiano, è riuscito a entrare con regolare visto concesso da un regime che dal 1998 ha messo nel cassetto costituzione e diritti, chiuso i giornali e fatto sparire migliaia di oppositori. Per superare questo passaggio delicato è insomma necessario risvegliare legami dimenticati in Italia, ma non qui. Perché sono a ogni angolo, insieme alle contraddizioni, nell’eterna primavera che ha evitato la rovina dei malandati palazzi coloniali italiani, patrimonio Unesco, che assicurano un’atmosfera da provincia degli anni 30 unica in Africa.

Qui hanno vissuto fino a 50mila italiani che hanno arricchito il Paese di fabbriche e lavoro fino al 1975, quando le nazionalizzazioni del filosovietico Menghistu in Etiopia hanno fatto fuggire i superstiti. Dopo l’indipendenza del 1993 si era riaccesa la luce, ma la guerra fratricida del ’98 ha spento tutto. Oggi gli italiani d’Eritrea tra nazionali, italo eritrei e meticci non riconosciuti – questione irrisolta – non arrivano al migliaio.

Ma l’Italia è nei bar e nei ristoranti della centralissima Harnet street, ex corso Vittorio Emanuele, che regalano un viaggio nel tempo. È nei diversi veicoli che circolano nel traffico scarso a semafori spenti e lampioni fiochi, vecchi modelli dei tempi del boom e dell’austerity cui meccanici locali e italoeritrei assicurano vita eterna. E al Medebere, il caravanserraglio dove si ricicla tutto, c’è nell’arte dell’industriarsi italoafricana il segreto della resilienza di un popolo che ha sopportato miseria e stenti per una economia bloccata 20 anni. La nostra lingua e la nostra cultura hanno resistito grazie alla più grande e antica scuola italiana all’estero con 1.250 allievi – per l’80% eritrei – dalle elementari alle superiori.

Un ragazzo delle medie ha accolto Emanuela Del Re in classe durante la sua visita dicendo che la sua esperienza più bella era stata andare in quella scuola. «Non è una fortuna che tutti hanno». «In effetti – commenta la preside Vilma Candolini – abbiamo numerose richieste che non riusciamo a soddisfare e abbiamo chiesto al governo di ampliarla». Alle elementari ci sono sezioni con oltre 30 allievi e lacune nelle cattedre con docenti che arrivano anche a metà anno. Restano al massimo due mandati quinquennali. «La qualità è buona – conferma la preside – e grazie all’integrazione dei programmi scolastici oltre alla maturità sostengono l’esame eritreo con buoni esiti».

Dopo il diploma scatta il precetto, un voto alto consente di andare nei college universitari in servizio civile. La cui durata resta il grande problema. La capitale è mezza vuota, abitata perlopiù da adolescenti e anziani. La generazione di mezzo asmarina, mi confermano eritrei e italiani, è in parte fuggita negli anni dell’embargo e del lungo servizio militare sulle tante rotte verso Africa, Europa e Nord America, con famiglie separate, rapimenti, morti e drammi infiniti. I trafficanti vanno a colpo sicuro con gli eritrei, si dice nelle vie asmarine, perché c’è sempre qualcuno che pagherà per liberarli.

Anche dopo la riapertura dei confini ha proseguito il flusso libero in Etiopia per ricongiungersi a famigliari rifugiati, chiedere asilo o lavorare aspettando cambiamenti politici ed economici. Dal Blokko, l’antico dazio coloniale, parte un servizio quotidiano e frequente di minibus etiopici verso il confine. Anche se i salari del servizio civile restano bassi, l’apertura dei confini ha riempito improvvisamente i negozi e fatto crollare i prezzi degli alimentari passando dall’autarchia al libero mercato in poche ore. Alle porte di Asmara nel mercato a cielo aperto di Merhano arriva merce di ogni tipo dal Tigray, la regione confinante tra le più sviluppate d’Etiopia. Sono prodotti delle fabbriche dei cinesi che trovano nel vicino povero lo sbocco naturale. Resta il limite del prelievo di 5.000 nakfa mensili (300 dollari) e la mancanza del cambio e di un sistema finanziario e creditizio. Altri benefici della pace, i collegamenti aerei giornalieri con Addis, il miglioramento della fornitura di elettricità e acqua nella capitale, dove l’approvvigionamento avvie- con botti. Invece la rete obsoleta e l’assenza di roaming escludono ancora i cellulari non eritrei.

Sulla inevitabilità dei cambiamenti è certo l’imprenditore bergamasco 47enne Pietro Zambaiti, ex cooperante che con la famiglia nel 2008 ha acquistato il vecchio opificio Barattolo creando la Zaer, azienda modello con un asilo interno e borse di studio alla scuola italiana. «Abbiamo 500 dipendenti, perlopiù mamme, esentati dal servizio. Esportiamo in Italia per alcuni marchi e stiamo crescendo. Certo con il servizio civile non posso assumere figure specializzate.

Ma il governo sta lavorando a un piano di smobilitazione graduale. Il presidente Afewerki non può liberare subito dalla leva 400mila persone senza dare loro lavoro». Ma senza manodopera è difficile attirare imprenditori. «È come il nostro dopoguerra, bisogna riattivare la macchina. Serve tutto, c’è la povertà da battere e il sistema Italia può essere determinante per accompagnare lo sviluppo che porta i cambiamenti voluti da tutti». È la linea del governo italiano, interessato a stare accanto al cancello del Corno d’Africa, area planetaria con enormi prospettive. In questo passaggio storico attende novità la Chiesa cattolica, tenuta sotto osservazione e ostacolata nelle attività tradizionali come educazione, sanità.

Quattro anni fa con una coraggiosa lettera pastorale aveva denunciato l’esodo dei giovani per la miseria, l’oppressione e la mancanza di prospettive. Dopo la pace dice che nulla è cambiato e chiede la fine della leva illimitata e il ripristino della Costituzione. O perlomeno un programma di riforme che elimini le incertezze della gente . La città delle nostalgie italiane d’Africa spera di tornare nel presente, la luce deve tornare in fretta per il popolo dell’Asmara.

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