giovedì 20 agosto 2020
Il procuratore della Repubblica di Trani: Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa»
Renato Nitti, sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari

Renato Nitti, sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari - Cortesia

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Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa». Una affermazione, quella del Procuratore della Repubblica di Trani e per molti anni sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari, Renato Nitti, che nasce da uno studio del rito dell’affiliazione fatto dalla magistratura pugliese.

Perché tanta attenzione?
In realtà si partiva da una necessità giuridica: il solo essere affiliato a una cosca è o no un reato? Alcune sentenze, male interpretate, sembravano lasciare aperto l’interrogativo. Allora diventava importante comprendere e approfondire i meccanismi di questo passaggio, di questo rito anche dal punto di vista giuridico, esaminandolo come se fosse un contratto, meglio, un negozio giuridico di cui è importante capire la forma richiesta, le vicende, ma soprattutto gli effetti: effetti per l’affiliato, per l’affiliante, per chi celebra la cerimonia di affiliazione e per il clan . È emerso con maggiore chiarezza che anche la sola affiliazione formale è una partecipazione reale alla organizzazione criminale. E il vincolo è reso stretto anche dall’uso di termini, e riti che si rifanno alla religione. Ecco allora l’utilizzo delle immagini sacre, di santi e delle varie Madonne, inserite all’interno del rito di affiliazione. Lo stesso favellante (colui che celebra il rito di affiliazione) in alcune intercettazioni viene paragonato al “prete che sa dire la Messa”, e così lodato per questa capacità, peraltro non comune.

La religione, quindi, come strumento per coinvolgere emotivamente gli affiliati?
Precisato che ci troviamo davanti a uno stravolgimento del senso religioso, il coinvolgimento emotivo cresce con il ricorso a questi riti e terminologie. È così forte che troviamo termini religiosi addirittura nei vari gradi della “carriera mafiosa”. Si parte dal picciotto, affiliato di primo grado senza particolari ruoli; poi si sale al grado di “camorra” e successivamente a quello dello “sgarro”. Gli altri due (non ultimi) gradini, corrispondenti al quarto e quinto grado di camorra , si chiamano “la santa”, da cui il termine “santista”, e addirittura il “Vangelo”. Sono i gradi in cui si può persino iniziare a generare nuove affiliazioni sotto di sè.

Basta solo questo per creare un legame così forte?
È la percezione che ci trasmettono i collaboratori di giustizia, che, pur confessando delitti, magari, nelle loro dichiarazioni, evocano “valori” di riferimento nel loro agire, che potrebbero richiamare quelli religiosi. Una sorta di diritto naturale, a cui tutti, anche se di clan diversi o di regioni diverse, si attengono.

Un esempio?
In più occasioni, collaboratori di giustizia hanno dichiarato di non aver portato a termine un agguato perché erano presenti dei bambini. “Non si uccide davanti ai bambini”, mi hanno spiegato. Oppure il rifiuto di affiliare un appartenente all’Esercito, perché indossava l’uniforme. “Se porta una divisa, serve lo Stato. Non può servire la mafia”. E così di seguito.

Che effetto le fa veder usare questi termini religiosi?
Infastidisce, ma devo onestamente dire che mi ha lasciato maggiormente perplesso l’atteggiamento tenuto da alcuni politici, magari vicini alla Chiesa, finiti nelle inchieste che ho seguito. Abbiamo, in alcuni casi, colto dei tentativi di strumentalizzarne i valori per finalità del tutto diverse.

Dunque un uso delle religione all’interno della cosca. Ma anche in Puglia si assiste all’uso strumentale della religione per raccogliere consenso sociale?
Nel mio circondario è meno ricorrente, rispetto alla realtà calabrese, la corsa a portare in spalla la statua della Madonna o del santo patrono, ma ovviamente la ricerca di consenso passa anche attraverso le feste patronali e, in generale, questi eventi, usati anche per accreditare in modo diverso il proprio potere presso la gente. La caratteristica principale (giuridicamente si dovrebbe dire: indefettibile) dell’associazione di stampo mafioso è il “metodo mafioso” e non le finalità criminali. È proprio qui che sta il cuore del reato di associazione di stampo mafioso, prevista dall’art. 416 bis del codice penale, che rispetto all’associazione a delinquere (il 416), non è finalizzato necessariamente soltanto a compiere reati, ma può avere anche altre finalità: il controllo delle attività economiche, la realizzazione di guadagni ingiusti, l’impedire il voto o anche semplicemente procurare il voto per sè o altri. Tutto però deve avvenire con la forza di intimidazione e con l’assoggettamento e l’omertà che ne conseguono: cioè con metodi mafiosi.

Vi siete mai domandati perché la mafia predilige la Madonna?
Penso che la domanda richieda una risposta complessa. Non vi è dubbio che abbia decisiva rilevanza la profondità e l’estensione del sentimento popolare di devozione mariana. E probabilmente per la stessa ragione nel nostro territorio comincia ad essere richiamato, tra i “santini” utilizzati per celebrare il rito mafioso, anche quello di Padre Pio. Ma qui mi avventurerei in un ambito che non è mio e in cui ho necessità di confrontarmi con altre esperienze: credo che il lavoro a cui è chiamato il Dipartimento presso la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) rappresenti un passo importante per confrontarsi e analizzare tutti gli aspetti del fenomeno, inclusa la scelta della Madonna. Ognuno degli esperti esterni all’Accademia porterà la propria esperienza. In questa prospettiva, la condivisione potrà tornare utile a tutti, anche alla lotta alla mafia, perché potrà fornire ulteriori elementi per decriptare ulteriormente il senso profondo delle formule utilizzate per le affiliazioni e i successivi “movimenti”.


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