martedì 12 agosto 2014
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L’ultimo studio sulle medicine complementari? «È palesemente permeato di preconcetti, è emesso da entità contrarie 'a priori' alla diffusione delle medicine non convenzionali e fa parte di campagne stampa che vengono regolarmente attivate ogni volta che sono in corso (come attualmente per i medicinali omeopatici) tentativi legislativi in merito». Come era logico attendersi, gli organismi di categoria che rappresentano le medicine complementari, non ci stanno e bollano come poco credibili le ultime ricerche della medicina ufficiale che, a sua volta, non perde occasione per relegare omeopatia o agopuntura a pratiche di seconda categoria.  Il presidente della Federazione italiana delle associazioni e dei medici omeopati (Fiamo), Antonella Ronchi, la prende con… filosofia quando spiega che «negare il valore della ricerca sulla base della implausibilità di ciò che si deve indagare» significa «voler mettere una veste scientifica all’affermazione 'non può essere quindi non è', che è la tomba di ogni progresso in medicina, come nelle altre scienze». Lamenta, Ronchi, la sottovalutazione storica delle complementari («l’agopuntura ha millenni », «l’omeopatia secoli») e la loro estensione («milioni di medici» e «centinaia di milioni di pazienti»). Soprattutto, gli autori degli ultimi studi accademici «non sono andati a verificare 'sul campo' l’efficacia di tali terapie». Per Ronchi, «l’argomento omeopatia dovrebbe essere affrontato con più serietà e chiarezza e soprattutto con maggiore equanimità».  Di «incongruenze» nello studio dei ricercatori italiani, parla il vicepresidente della Siomi (Società italiana di omeopatia e medicina integrata), Francesco Macrì. Il 'nodo' della questione è la metodologia della ricerca. L’omeopatia o l’agopuntura hanno un approccio soggettivo nei confronti del paziente, e i risultati andrebbero valutati caso per caso: possono essere dunque sottoposte a iter uguali a quelli della medicina ufficiale? «No», secondo gli omeopati, che sottolineano come metodi di valutazione soggettivi dei sintomi (come il Visual analogic score) ottengano oggi «una forte affermazione anche nella medicina convenzionale». Inoltre, dichiara Macrì, «gli studi clinici non hanno lo scopo di dimostrare il meccanismo di azione ma l’efficacia della terapia». E cita alcuni esempi: «La modulazione dell’espressione genica di cellule prostatiche ottenuta con sostanze ultradiluite»; oppure «l’azione di trazione sul tessuto sottocutaneo che gli aghi inseriti nella cute svolgono, liberando citochine ad azione antinfiammatoria». Ancora, un altro esempio a riprova del fatto che la dimostrazione delle 'alternative' «prescinde dalla maggiore o minore credibilità delle ipotesi sul loro meccanismo d’azione», è costituito dai «vaccini desensibilizzanti specifici per le allergie respiratorie, utilizzati in medicina convenzionale per lungo tempo prima di dimostrare il loro meccanismo d’azione». Insomma, l’ennesimo studio che accusa le complementari – e che, evidenzia Macrì, poggia sull’«affermazione tautologica che meno l’ipotesi è credibile meno è dimostrabile la sua validità» – incorrerebbe in un errore ormai 'consueto', perché «porterebbe ad affermare che la ricerca clinica, in generale, dovrebbe essere applicata al 'già verificato' e non al 'da verificare', penalizzando la possibilità di allargare gli orizzonti della medicina». Per la Siomi i veri nodi da sciogliere per condurre ricerche cliniche «di livello», sono costituiti dalle «difficoltà di svolgerle in strutture pubbliche», dall’«ostruzionismo pregiudiziale dei Comitati etici» e dalla «diffidenza» delle più importanti riviste scientifiche.
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