sabato 18 giugno 2011
Sei detenuti sulla via Francigena per una settimana. È il primo esperimento italiano di pellegrinaggio giudiziale. Un viaggio per ritrovare fiducia e speranza. Siamo andati con loro.
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«Adesso in carcere c’è l’ora d’aria. Noi, invece, è da stamattina che respiriamo l’aria». «Aria di libertà». «Ma anche di fatica». «Di speranza». Riflettono così Antonio, Franco, Giuseppe, Marco, Nicola e Salvatore. Seduti in un bosco di faggi sui monti Cimini. Meritato riposo, dopo circa 15 chilometri, un pesante zaino in spalla. Ce ne aspettano altri 16. In tutto 31 chilometri tra Viterbo e Sutri. Una delle tappe della Francigena, l’antica via che portava i pellegrini a Roma. E che da alcuni anni, sulla scia di Santiago di Compostela, ha ripreso ad essere percorsa.Ma il loro è un pellegrinaggio molto particolare. Il primo in Italia. Perché sono detenuti del carcere romano di Rebibbia. Storie difficili, reati anche pesanti, dall’omicidio al traffico di droga, dalle frodi alle estorsioni, dalle rapine al contrabbando. Ma per sette giorni, tra Radicofani e Roma, per 168 chilometri, sono semplicemente pellegrini. Come gli altri. E dagli altri così sono trattati. La loro prima sorpresa positiva. «Ci vedono come persone normali, non come delinquenti. Ci mettono sempre a nostro agio. E questo ci fa sperare», commenta Nicola. «L’opportunità di cambiare va data a tutti, mica siamo malati terminali», aggiunge Giuseppe. Loro l’hanno avuta e così hanno accettato questa «prova». Noi abbiamo camminato con loro per due giorni, da Viterbo a Campagnano Romano. Circa 60 chilometri. Su sentieri, strade di campagna pochi tratti d’asfalto. Tra boschi, campi coltivati, paesi ricchi di storia. «Non avevo mai visto posti così belli», commenta Antonio. Tuscia laziale, da secoli passaggio dei romei, i pellegrini che raggiungevano la Tomba di Pietro. Come i nostri sei compagni di cammino. Un’idea coltivata da anni dal professore Paolo Caucci von Saucken, rettore della Confraternita di San Jacopo di Compostela e realizzata grazie alla convinta collaborazione della direzione di Rebibbia. La prima volta in Italia, secondo l’antica tradizione dei "pellegrinaggi giudiziali", che permettevano di scontare parte della pena. Per i sei, però, si tratta d’altro. E avranno modo di spiegarcelo.Partenza alle 7 dalla Porta Romana di Viterbo. Il tempo di fare la loro conoscenza e quella degli accompagnatori, Monica D’Atti e Maurizio Ciocchetti, membri della Confraternita ed esperti camminatori, oltre al "pellegrino" Paolo, ed è subito salita. Ci si scambia qualche battuta sui dolori ai piedi. Ma subito percepiamo la grande volontà. «Mi fanno male un piede e un ginocchio, ma voglio arrivare fino in fondo. Anche con sofferenza», ci dice Franco, 34 anni, da 17 in carcere. Il primo permesso premio lo ha avuto il 29 aprile. Il secondo lo trascorre sulla Francigena. È altrettanto convinto Salvatore, 60 anni, detto "o professore". Nella piazzetta di San Martino ai Monti, mentre dà tregua ai piedi martoriati, ci racconta la sua vita. «È una sfida. Sto faticando, ma lo faccio per mia moglie e le mie due figlie che ho fatto tanto soffrire». Dopo una preghiera, tutti in cerchio nella aerea chiesa cistercense, è tempo di ripartire. Ci affianchiamo ad Antonio, 59 anni, napoletano. «Mi sto mettendo alla prova. Assaporo la libertà e la fatica. Non lo avevo mai fatto».È il momento di una pausa nel bosco, tra un panino, ricordi del carcere e delle famiglie. Sarà che in cella tutti diventano bravi cuochi, ma il cibo è uno degli argomenti fissi. Così Salvatore ci consiglia una golosa ricetta di pasta e patate. «Poi mi dici come è...». Ormai il ghiaccio è rotto. «Quando ce l’hanno proposto ci siamo messi a ridere, ma poi...», ricorda Giuseppe, 51 anni, che aggiunge: «L’importante è aver preso un impegno e portarlo fino in fondo. Invece in carcere non hai mete». «Si parla solo di reati, di pene. Qua è diverso. Ho voglia di parlare d’altro. Di quello che vedo attorno», aggiunge Marco, detto "biscione", 40 anni e una grande passione per i cavalli. È ora di rimettere gli zaini in spalla. La strada da fare è quasi tutta in discesa, ma non è poca. E si continua a parlare. «Noi siamo favorevoli alle pene alternative per riuscire a reinserirci in un mondo che va veloce mentre in carcere è tutto fermo», ci tiene a spiegare Marco. «Quando finisci ti dicono "sei libero". Ma dove vai, che fai? Hai scontato la pena, va bene, ma poi?», domanda Salvatore.Ed ecco Sutri. Anche qui è vera accoglienza. Ci sono il sindaco e un assessore. Regali e perfino un breve intrattenimento musicale. Arriva il vescovo di Civita Castella, monsignor Romano Rossi, figura imponente, ed è l’occasione per un teatrino esilarante. «Che omaccione che sei!», lo apostrofa Giuseppe, detto non a caso "teremoto". «Compenso con la quantità la scarsa qualità», gli risponde divertito il vescovo. Che poi regala ai detenuti parole di speranza. «Voi state facendo un cammino di resurrezione, siete segni di resurrezione, della voglia di cambiare». Parole che stupiscono ancor di più chi è abituato solo a condanne. Invece per loro tanti cuori e porte aperte. Così quando Monica si fa male e deve fermarsi a Sutri, non ci stanno. «Ti portiamo noi in barella». È un momento commuovente. Nella piccola chiesa del monastero delle Carmelitane, che ci hanno ospitato per la notte, ci si stringe per una preghiera. E la parole di Monica hanno molti significati. «Anche dal male può venire il bene. L’importante è che ognuno segua la sua strada per fare qualcosa per il mondo».Ora è tutto in mano a Maurizio, un concentrato di allegria, energia e organizzazione. E via, verso Monterosi e Campagnano, dove ci ospita don Renzo Tanturli. Si dorme in conventi e parrocchie. Secondo la tradizione degli antichi pellegrini. Su letti, brandine o semplici materassi. In ogni comune vanno a firmare alla stazione dei carabinieri. E alle 21 tutti a "nanna". Tentazioni di scappare? «Ma che sò str...», risponde Franco. «Farei del male a me stesso e a chi ha avuto fiducia in me». C’è rispetto, ma anche impegno nelle sue parole. «Io andrei nelle scuole (lui che quando è entrato in carcere non aveva fatto neanche le elementari) per parlare coi ragazzi e spiegare di non fare i miei errori». Parole forti, come quelle di Nicola, 27 anni, già due figli di 10 e 2 anni, e una giovane moglie. «Lei è stata importantissima, si è accollata tutto. Il carcere mi è servito, ho capito cosa stavo perdendo. Non sgarro più e mi dedicherò a loro». Convinto che «chi ha davvero le palle è chi ogni giorno va al lavoro».È il momento di salutarci. «Mi raccomando – dice Antonio – scrivi che questo cammino deve proseguire. Che anche ad altri sia data questa opportunità. Noi abbiamo camminato anche per loro».
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