sabato 22 gennaio 2022
Il bilancio di una presidenza sull’ottovolante, durante la quale un Parlamento (quello eletto nel 2018) a maggioranza euroscettica ha finito per eleggere premier un campione ell’europeismo
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Da domani, convocati alla Camera i 1.009 Grandi elettori, ogni giorno è buono per scegliere il successore di Sergio Mattarella. Si chiudono così sette anni vissuti sull’ottovolante, anni di cadute precipitose per il Sistema Italia durante le quali, grazie anche al "motore di riserva" conferito dalla Costituzione alla più alta carica dello Stato, il Paese e una politica in estrema difficoltà hanno sempre potuto ritrovare in se stessi le risorse per una difficile, quasi insperata, risalita.

Ma il modo peggiore per fare tesoro del prezioso lascito di questo settennato sarebbe quello di inseguire la prospettiva di un nuovo incarico al suo protagonista, a dispetto del diretto interessato che l’ha sempre escluso con dovizia di argomenti e di riferimenti storici. Significherebbe voler affibbiare anche a Mattarella il virus del personalismo di cui è afflitta la politica dell’era social. Quasi che un progetto, una visione, un esempio positivo nelle istituzioni più alte non possa mai trovare un nuovo interprete a riceverne il testimone.

Il primo momento traumatico del settennato, il passaggio della guida del governo da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni (non certo gradito dal primo che, da suo king maker per il Quirinale, si aspettava da Mattarella il voto anticipato) fotografa il primo requisito che dovrà avere il nuovo inquilino del Colle: «Ciascun presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione - ha detto Mattarella nell’ultimo messaggio di fine anno - dovrà spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale».

Ma la vera domanda che sovviene, guardando alla storia di questa legislatura, porta a chiedersi come sia stato possibile che un Parlamento a larga maggioranza "euroscettica", come quello eletto nel 2018, abbia finito per eleggere e sostenere alla guida del governo Mario Draghi, campione dell’europeismo su scala continentale. L’artefice di questo processo è stato un Presidente che ha sempre descritto e interpretato il suo ruolo come quello di arbitro.

Ma l’arbitro non è un notaio, e a gioco fermo è chiamato a volte a scelte determinanti, nell’interpretazione delle regole del gioco, come è accaduto più volte, in questo settennato, per superare l’impasse dei partiti. L’asse del "cambiamento" Lega-M5s, espressione di un variegato voto di protesta degli italiani, fu messo da Mattarella alla prova del governo, ma l’articolo 117 della Costituzione che comporta il «rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» fu la bussola che indusse il capo dello Stato a un secco altolà alla designazione di Paolo Savona all’Economia, dal momento che aveva teorizzato il "piano B" dell’uscita dall’euro.

Nulla di personale, se lo stesso Savona sarà poi accettato nel ruolo di ministro degli Affari Europei, ma la fissazione di quel "paletto" ha avviato un importante processo politico, nella lenta maturazione consentita dalla nostra democrazia parlamentare. E così lo stesso Movimento 5 stelle che si era intestato in quella fase turbolenta una sciagurata minaccia di messa in stato d’accusa contro Mattarella, un anno dopo - col ruolo determinante di Giuseppe Conte, va ricordato - risultò decisivo, con i suoi eurodeputati a Strasburgo, nel formare la maggioranza a sostegno della Commissione guidata da Ursula von der Leyen.

Il presidente Mattarella con papa Francesco. Un rapporto cordiale e di stima reciproca

Il presidente Mattarella con papa Francesco. Un rapporto cordiale e di stima reciproca - Ansa

La traumatica svolta del "Papeete" nell’estate 2019, e il Conte 2 che ne è scaturito, hanno segnato un nuovo passo in avanti in chiave "europeista" della legislatura, reso possibile dalla mutazione genetica dei 5 stelle e dalla loro convergenza con il Pd. Cosicché il nostro Paese, travolto dalla pandemia, ha potuto trovare nell’Europa la sua naturale ancora di salvezza, fino alla vittoriosa trattativa che ha assegnato all’Italia i famosi 209 miliardi del Pnrr. Ma come non ricordare, prima, la voce grossa che Mattarella dovette fare con Christine Lagarde, a difendere un Paese in ginocchio, nel giorno in cui un’avventata dichiarazione della neo-presidente della Bce (che poneva un limite agli aiuti per gli Stati più indebitati) aveva causato un crollo dei mercati.

Il drammatico appello di un anno fa che ha portato a responsabilizzare tutte le forze già coinvolte nella guida del Paese nei precedenti due esecutivi della legislatura, fa parte della storia più recente di un anno di governo Draghi contrassegnato da tre fiori all’occhiello: il +6 per cento del Pil, una campagna di vaccinazione record e una conduzione impeccabile del vertice del G20 dopo esser ridiventati, noi, protagonisti in Europa e nel G7 nei diversi vertici che si sono susseguiti.

Un patrimonio, questo, da non disperdere. Qualunque sia la soluzione che verrà trovata, essa dovrà reggere con lo stesso spirito condiviso ed europeista le nuove sfide della pandemia e dell’impennata dei prezzi. Sarebbe invece da irresponsabili tirare per la giacca i due principali artefici del mezzo miracolo. Mattarella del suo futuro ha già parlato con chiarezza, e in qualche modo l’ha fatto anche Draghi, quando ha chiarito di non disdegnare, alle brutte, di poter tornare a fare il nonno. E proporre il suo nome per il Colle senza un accordo serio, ampio e condiviso significa, in caso di fallimento, spingerlo proprio in quella direzione. Allo stesso modo una volta minata la sua maggioranza con un muro contro muro sul nuovo capo dello Stato, saltata la tregua istituzionale che ne aveva permesso la nascita, sarebbe impossibile chiedere a Draghi di proseguire la sua esperienza di governo.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: