mercoledì 14 gennaio 2015
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Sono le 19.35 di lunedì 9 febbraio 2009, e mentre nell’aula del Senato è in corso un drammatico dibattito sul disegno di legge presentato tre giorni prima dal governo Berlusconi nella clinica La Quiete di Udine si spegne Eluana Englaro, la giovane lecchese da 17 anni in stato vegetativo dopo un incidente stradale. Il confronto sulla norma ribattezzata «salva-Eluana» viene interrotto dalla notizia, e a Palazzo Madama scoppia la bagarre, con le accuse di chi si era battuto per evitare la tragica fine della ragazza, morta di sete dopo il distacco del sondino per la nutrizione assistita il 7 febbraio. Il disegno di legge messo in campo dal governo era l’estremo tentativo per rendere immediatamente operativi gli effetti del decreto approvato venerdì 6 dall’esecutivo ma in calce al quale il presidente Napolitano non aveva apposto la sua firma. Una decisione che – di fatto – era costata la vita a Eluana, "condannata" tuttavia dalla famigerata sentenza con la quale la Corte di Cassazione il 16 ottobre 2007 fissava due condizioni per staccare il sondino: che «la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno»; e che la scelta di interrompere la nutrizione via sondino (unico supporto artificiale applicato a Eluana) «sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona». La sentenza della Suprema Corte era stata la premessa a un altro pronunciamento chiave della vicenda, quello decisivo: il provvedimento con il quale nel luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano aveva definitivamente autorizzato la fine anticipata di Eluana. Dopo il suo trasferimento nella notte del 3 febbraio 2009 da Lecco – dove da anni era amorevolmente accudita dalle Suore Misericordine – a Udine per l’esecuzione della sentenza, quello del governo fu l’estremo tentativo di evitare l’irreparabile. Il decreto impediva di sospendere l’alimentazione assistita a pazienti non in grado di nutrirsi da soli, ma con questa iniziativa il governo sapeva di sfidare le perplessità di Napolitano rese note in una lettera e confermate dalla sua decisione di non controfirmare il decreto. Il presidente dunque prendeva atto «con rammarico della deliberazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto-legge relativo al caso Englaro – come informava il Quirinale –. Avendo verificato che il testo approvato non supera le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, il presidente ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto». Il giorno stesso della morte di Eluana, il capo dello Stato diffuse poi una dichiarazione nella quale così si esprimeva: «Dinanzi all’epilogo di una lunga tragica vicenda, il silenzio che un naturale rispetto umano esige da tutti può lasciare spazio solo a un sentimento di profonda partecipazione al dolore dei familiari e di quanti sono stati vicini alla povera Eluana».

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