lunedì 20 febbraio 2012
​In 23mila "fermi" tra richieste d'asilo e ricorsi.
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Fotso passa le sue giornate a guardarsi intorno, a chiedere se c’è bisogno di lui. Dal 22 gennaio – giorno in cui è stato battezzato ed è diventato cristiano – il suo nuovo nome è Patrick. Ma qualcuno, tra i trenta ospiti del polo della Protezione civile di Santo Stefano Magra (vicino a La Spezia) se ne scorda e lo chiama come prima, urla «Fotso!».Giovani, alti, cappellini di lana colorata sulla pelle nerissima, gli “ospiti” venuti dal Nord Africa in paese ormai li conoscono tutti. Sono stati sistemati lì l’aprile scorso, in base al Piano per l’accoglienza dei migranti disposto in seguito all’emergenza umanitaria per i profughi libici. Loro, che in Libia erano arrivati in cerca di fortuna dal Camerun, dal Ghana, dalla Nigeria. E lì sono ancora, in attesa di iniziare una vita, stretti nel limbo del loro status “da definire”. «Coi permessi provvisori e senza documenti, come nel caso di molti – spiega Costantino Centofanti, segretario del Coordinamento provinciale della Protezione civile di La Spezia – non possono lavorare. E così passano le giornate a giocare a calcio, a dare una mano a noi se serve». Come nei giorni dell’alluvione, quando si sono rimboccati le maniche per aiutare con scatoloni e pale. «Si sono sentiti utili, per la prima volta. Poi, però, son tornati al niente, al calcio. Noi ci sentiamo un po’ impotenti, ecco...».Santo Stefano Magra come il resto d’Italia. I ragazzoni alti venuti dal Nord Africa e costretti ad “ammazzare il tempo” (per usare un eufemismo) nelle strutture d’accoglienza dello Stivale erano quasi 50mila nel pieno della guerra civile in Libia, tra la primavera e l’estate scorsa. A oggi sono 21.465. Più gli oltre 1.400 ospitati nel centro di Mineo, in Sicilia. Quasi 23mila persone appese da oltre un anno al filo della burocrazia e delle procedure legali, che prevedono la presentazione della richiesta d’asilo, i successivi colloqui nelle prefetture locali, l’attesa, poi la nuova convocazione fino alla pronuncia definitiva delle commissioni sullo status da attribuire a ciascuno.«Una macchina – spiega Stefania Renzulli, funzionario del Dipartimento della Protezione civile – che funziona dove enti gestori, questure e prefetture sono ben coordinate tra loro e dove ai profughi viene fornita immediatamente l’assistenza legale che meritano». Ma che, nella pratica, procede lentissima ovunque (quando non s’inceppa del tutto). E con un numero esiguo di richieste d’asilo accolte: nel 2011, secondo dati diffusi dal ministero dell’Interno in settimana, a fronte delle 33.576 presentate (e delle 24.233 effettivamente esaminate), 10.520 hanno avuto esito negativo. Meno della metà.Una situazione ulteriormente complicata dai ricorsi contro i dinieghi, e poi dalle situazioni «e purtroppo sono tante», continua la Renzulli, in cui «la richiesta non viene presentata correttamente e secondo l’iter preciso per mancanza di informazioni corrette “alla base”, cioè tra gli enti e le associazioni che hanno accolto i profughi». Lacune che in alcuni casi vanno estese anche alle attività e ai servizi standard previsti per gli ospiti delle strutture (come i corsi di italiano o l’assistenza sanitaria), in molte località avviate e gestite con difficoltà, in altre mai. Risultato: un’emergenza nell’emergenza, col problema di occuparsi di chi attende da una parte e di chi resta senza alcun tipo di permesso dall’altra, obiettivi più che mai difficili nonostante l’impegno dei Gruppi di monitoraggio territoriali della Protezione civile.Il prezzo – non solo umanitario – di tale emergenza (che peraltro è stata prorogata di un altro anno)? Da capogiro. Considerando che per ciascun migrante accolto nelle strutture disseminate sul territorio la Protezione civile rimborsa agli enti 40 euro al giorno (da cui è escluso il controverso “pocket money” di 2,50 euro a persona, in alcune città erogato in buoni, in altre in sigarette, in altre ancora in monete), ogni giorno il “limbo” dei profughi costa quasi un milione di euro.
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