venerdì 21 giugno 2019
Oggi a Roma viene presentato i nuovo Codice deontologico. Sono 450mila gli iscritti agli Ordini. Sono oltre 30mila quelli che mancano
Professione infermiere, il Codice del cambiamento
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Quando Barbara Mangiacavalli dice che «il Codice concorre all’identità professionale, ma non è l’identità professionale » fotografa la complessità della professione infermieristica, che ha, come spiega la presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, un’identità «sia deontologica, che scientifica, che personale». Il Codice che sarà presentato oggi a Roma, alla presenza del ministro della Salute, riflette questa complessità: gran parte dei 53 articoli può essere letta come un semplice aggiornamento delle regole professionali rispetto ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione dei servizi, nei contratti e nei rapporti giuslavoristici nell’ultimo decennio; in realtà cambia radicalmente il modo di assistere il malato e si affrontano alcuni nodi etici. Un risultato raggiunto attraverso 42 incontri in quattro anni, illustrati dalla stessa Mangiacavalli a Caserta, al recente convegno di pastorale sanitaria della Cei.

La presidente dell’Ipasvi vede nel nuovo Codice «un’innovazione con cui salvaguardiamo la vita». In realtà, il condizionamento del diritto positivo si sente. La cultura di riferimento è quella del prendersi cura e della sicurezza (articolo 1) e la concezione di salute e di benessere che viene tutelata è quella soggettiva del paziente (articolo 3), che condiziona la for- mulazione dell’articolo 25: «L’Infermiere tutela la volontà della persona assistita di porre dei limiti agli interventi che ritiene non siano proporzionati alla sua condizione clinica o coerenti con la concezione di qualità della vita, espressa anche in forma anticipata dalla persona stessa». Non si va oltre, né potrebbe essere diversamente: il consenso alle cure infermieristiche non è previsto per legge, anche se a Caserta la presidente ha rimarcato che «non siamo per l’eutanasia».

Nella legge sul fine vita l’infermiere non è espressamente nominato ma la cura del fine vita (articolo 24) «riconosce l’importanza del gesto assistenziale, della pianificazione condivisa delle cure, della palliazione, del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale e spirituale». La libertà di coscienza è preservata, seppur nei limiti imposti dal contratto del comparto: «L’Infermiere si impegna a sostenere la relazione assistenziale anche qualora la persona assistita manifesti concezioni etiche diverse dalle proprie. Laddove quest’ultima esprima con persistenza una richiesta di attività in contrasto con i valori personali, i principi etici e professionali dell’infermiere, egli garantisce la continuità delle cure, assumendosi la responsabilità della propria astensione. L’infermiere si può avvalere della clausola di coscienza, ricercando costantemente il dialogo con la persona assistita, le altre figure professionali e le istituzioni » (articolo 6).

Probabilmente la vera novità è nell’articolo 5: «Nell’agire professionale l’Infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo» e «si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono ». Con questa conclusione: «Il tempo di relazione è tempo di cura ». Una rivoluzione copernicana fondata sulla concezione di persona e su una diversa concezione del lavoro e del ruolo sociale che la categoria ha maturato in questi anni. «La tecnica – avverte Mangiacavalli – è uno strumento attraverso cui gli infermieri qualificano la loro relazione con l’assistito e la rendono più appropriata. Dobbiamo essere super-esperti di tecnica, ma non farla diventare il nostro obiettivo perché il nostro fine è sempre la relazione con l’assistito».

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