giovedì 1 agosto 2013
​Al direttore dei Musei Vaticani il premio Narducci consegnato a Lerici.
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​«La mia sorpresa quotidiana, dal 2007 in poi, è che continuino a pagarmi per stare dove sto e non sia io invece a dover pagare». In effetti di mestiere Antonio Paolucci, raffinato ed enciclopedico storico dell'arte, fa «l'uomo che vive immerso nella bellezza». Nominato direttore dei Musei Vaticani nel 2007 da Benedetto XVI, nel suo mazzo di chiavi porta con naturalezza anche quella della Cappella Sistina e la sera, quando anche l'ultimo dei turisti è defluito e i portoni si sono chiusi al resto del mondo, «mi piace aggirarmi nelle stanze affrescate da Raffaello e lì sapermi solo».A Paolucci, già direttore in passato dei più importanti musei d'arte italiani, sovrintendente a Firenze e ministro per i Beni culturali, mercoledì sera a Lerici il vescovo Luigi Ernesto Palletti, accompagnato dal direttore di "Avvenire" Marco Tarquinio, ha consegnato il Premio Narducci alla conclusione di un affollato incontro pubblico in riva al mare, nell'ambito della 38esima Festa del nostro giornale.«D'altra parte nella bellezza ci sono nato, essendo stato mio padre un antiquario e prima di lui mio nonno», ha spiegato Paolucci, raccontando che cosa significhi essere il «padrone di casa» della Sistina e abitare tutti i giorni uno dei Musei più ricchi di capolavori universali, visitato da 5 milioni di persone ogni anno, provenienti dai cinque continenti. «Oltre alle grandi opere legate al mondo della fede, ci sono però i massimi capolavori dell'antichità classica, come il celeberrimo Laocoonte o l'Apollo del Belvedere, ma anche le arti dell'antico Egitto o degli Etruschi, o ancora il settore etnologico con le piroghe della Papuasia e le sculture africane - ha ricordato -: intendo sottolineare, nel ruolo laicissimo che ricopro, che la Chiesa cattolica romana ha avuto l'immenso pregio di saper riconoscere e valorizzare in tutti i suoi venti secoli di vita ogni forma artistica, anche quella ispirata agli dei decaduti di antiche civiltà, senza pregiudizi e con grande apertura». In particolare al Papa Giulio II dobbiamo i Musei Vaticani, che hanno da poco compiuto i 500 anni di vita e ancora non hanno smesso di arricchirsi grazie alla sezione di arte contemporanea fortemente (e coraggiosamente) voluta da Paolo VI nel 1973.Eppure, ha ammesso Paolucci, una frattura che sembrava insanabile tra la Chiesa e l'espressione artistica dei contemporanei c'è stata senza dubbio, una crepa di incomunicabilità che si è aperta due secoli fa almeno e di cui ancora oggi è difficile intravvedere una evoluzione futura: «Pensate che Giulio II per affrescare le sue stanze chiamò un ragazzo di 25 anni, quasi un adolescente, che si chiamava Raffaello. E poi per la volta della Sistina si rivolse a un giovane poco più che trentenne, che era Michelangelo... Oggi non sarebbe possibile. La Chiesa vuole tornare a essere protagonista del dibattito culturale, ma l'arte contemporanea ha decomposto i codici figurativi tradizionali e perché compaia un nuovo Michelangelo dovremo aspettare, forse parecchio, forse no, chissà. Sarà cinese? Sarà australiano? E come sarà la sua arte?». Certamente le ceneri attuali non saranno infeconde, «la disgregazione odierna sarà il concime per far crescere nuove forme, per noi oggi impensabili, per il momento non immaginabili». Del resto è sempre successo: «Pensiamo a Dante. Sulle forme ormai estenuate di un latino esaurito spunta un poeta che, impastando le lingue romanze, il padano, il veneto, un po' di catalano, un po' di francese e quello stesso latino ossificato, si inventa questa lingua eccezionale, la stessa che noi questa sera stiamo parlando qui».Un futuro dunque in qualche orizzonte c'è, si tratterà di riconoscerlo quando arriverà e io «mi auguro che la Chiesa anche questa volta, come già fece Giulio II cinquecento anni fa, sappia valorizzarlo», chiedergli a venticinque anni di creare un capolavoro universale.Ma se questo è il futuro, c'è un presente che preoccupa e molto. La situazione del patrimonio artistico italiano, sempre più lasciato a se stesso, distrutto più dall'incuria degli ultimi decenni che dal passare innocuo dei millenni. «Una delle cause è proprio la ricchezza del nostro patrimonio, così vasta che non bastano i musei a contenerla, è distribuita ovunque, in ogni angolo, in ogni piazza, in ogni scorcio di questo che non a casa chiamiamo il Belpaese», ha spiegato Paolucci. Il nostro maggior pregio ci si ritorce contro, dunque, perché non è facile tutelare un museo a cielo aperto grande come una nazione, certo. Ma che dire di Pompei, vergogna tutta italiana sotto gli occhi del mondo, conservata dalla forza distruttiva di un vulcano e poi distrutta da chi dovrebbe conservarla? «Rispondo con dolore - ha avvertito Paolucci, senza reticenze -. Se Pompei si fosse trovata a Verona, a Milano o a Torino sarebbe già protetta e restaurata. Ma purtroppo si trova in una zona in cui il degrado è a tutti livelli, prima ancora morale che culturale. Sono stato a lungo sovrintendente e conosco la gravità di ciò che dico, ma mandare ora soldi laggiù significherebbe ingrassare le fila della criminalità organizzata». Dunque Pompei si sfalda e muore, questa volta davvero, sotto i colpi della camorra e della barbarie? «Prima è necessario sanare il contesto, solo poi si potrà pensare a salvare Pompei».Meglio rinfrancarsi l'anima tornando al passato, allora. E al bello. Quello in cui ha il privilegio di vivere per mestiere. Quali, secondo il suo giudizio di osservatore privilegiato, le tre opere irrinunciabili, quelle che tutti dovrebbero conoscere? Difficile scegliere, quando ogni singola figura della Sistina potrebbe da sola riassumere il genio umano, ma Paolucci non va sul facile e, dopo qualche esitazione, sfodera tre assi: l'Assunta del Tiziano, nella Basilica di Santa Maria dei Frari a Venezia, con quel rosso sfavillante che tuttora la rende unica al mondo. La pala di Rubens nella chiesa del Gesù a Genova, intolata "La circoncisione": una tela impressionante, che rappresenta il primo sangue versato da Gesù. E infine un Velasquez​ conservato al Museo del Prado, a Madrid: «Vi è dipinta la resa della Fortezza di Breda, in Olanda, assediata dagli spagnoli nel 1625. Velasquez riprende quell'epico episodio solo dieci anni dopo e ritrae l'istante in cui l'invincibile fanteria spagnola tiene alte le lance come a concedere l'onore delle armi all'avversario sconfitto. C'è tutta la grandezza umana, il rispetto per il nemico». Queste le tre più imperdibili espressioni dell'uomo sulla via della bellezza, «ma potrebbero essere milioni», si sa... E poi la sera, quando il mondo resta chiuso fuori, ci sono sempre quelle stanze dipinte da un Raffaello ragazzino, e lì, immersi in solitudine tra gli affreschi, non si può non dar ragione a Picasso: «Leonardo ci promette il paradiso, ma Raffaello semplicemente ce lo dà».
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