giovedì 30 gennaio 2014
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Soldi e poltrone, poltrone e soldi. La crisi ucraina potrebbe avviarsi a una soluzione trovando in un’alchimia semplice e antica l’antidoto ai veleni che per due settimane hanno riportato sulle barricate migliaia di giovani determinati a emanciparsi dalla pesante tutela russa nella rincorsa di un sogno europeo. Gli scontri, innescati a fine novembre dal rifiuto del presidente Viktor Janukovich di firmare un accordo di associazione con la Ue, hanno portato il Paese sull’orlo di una guerra civile ed evidenziato, come mai prima, la profonda scollatura tra una popolazione in condizioni di sostanziale povertà e una leadership arroccata nei suoi privilegi di eredità sovietica: interessi, garantiti da Mosca secondo logiche consolidate di potere e corruzione, sfacciatamente "solidificati", mattone su mattone, nei castelli che circondano Kiev.

La protesta ha preso forma in questi tre mesi alimentandosi, di giorno in giorno, di richieste sempre più ambiziose: i ragazzi di piazza Indipendenza reclamavano un riavvicinamento all’Europa (e alle sue libertà), all’inizio; chiedevano le dimissioni del "tiranno" Janukovich, alla fine. Riuscendo a spingere il vento gelido della "Primavera ucraina" anche nelle zone orientali del Paese, feudo elettorale del presidente filo-russo. Questo il segnale che ha determinato la svolta: il 25 gennaio Janukovich, ormai alle strette, ha offerto gli incarichi di premier e vice-premier ai due leader dell’opposizione, Arsenij Jatsenyuk e Vitaly Klitschhko. Incassando ufficialmente un "no". Ma le trattative proseguono. E la crisi, al netto di sporadici disordini, si è affievolita. Poltrone, dunque. E poi i soldi. Quelli di Putin. Il leader del Cremlino, impegnato da settimane a mostrare il suo volto migliore in vista dei Giochi invernali di Sochi, ha promesso di acquistare 15 miliardi di dollari in titoli di Stato ucraini e di ridurre di un terzo il prezzo del metano russo. L’offerta, estremamente astuta, consente al capo del Cremlino di mantenere l’Ucraina sotto la sua ala portando nello stesso tempo ai margini dello sguardo internazionale un focolaio di tensione quantomai scomodo. La proposta, formulata già in dicembre, aveva diluito i malumori della piazza una prima volta, e lo ha fatto ancora adesso. A Putin è bastato "ricordare", l’altro ieri, l’imminente arrivo di una seconda tranche di quel sostanzioso pacchetto per rimettere (quasi) tutti in riga dalle parti di Kiev, governo e opposizione. Le barricate restano, e la rivolta cova sotto la cenere dei copertoni. Ma è un fatto che da tre giorni, in Ucraina, si discute e non si combatte.Ora: l’alchimia di potere e denaro può apparire frustrante e detestabile. In molti, al Maidan, storcono il naso. Trovando voce e appoggio nelle parole di Julija Timoshenko, la pasionaria della 'Rivoluzione arancione' che, dall’ospedale in cui è ricoverata in stato di detenzione, incoraggia il perseguimento di una vittoria limpida, ripulita da pastette e misure cosmeti­che che potrebbero rivelarsi soltanto un imbroglio. Un’occhiata alle altre Primavere, quelle irrisolte dei Paesi arabi, sollecita però, con tutte le doverose differenze di contesto, un paragone. In Egitto, in Libia, in Siria si continua a spara­re e a morire, a Kiev le due controparti siedono allo stesso tavolo. Questa intesa fragile e com­plicata sembra l’unico prodotto possibile di un Paese giovane che sta faticosamente cercando il suo futuro: un’occhiata a Est, un’occhiata a Ovest. Si tratterebbe di un accordo al ribasso, certo, per molti versi fastidioso, ma certamente preferibile alla logica delle armi. Qualcuno lo chiama pragmatismo. Qualcuno, più semplicemente, cammino verso la democrazia.

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