domenica 27 marzo 2016
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ROMA Promossi, per il momento, per la capacità di catturare i fondi del piano Juncker sugli investimenti. Bocciati, invece, sulla ripartizione della spesa pubblica (dati del 2014) e in particolare per le scarse risorse messe su educazione e cultura. Alla vigilia di Pasqua l’Europa dà i numeri e l’Italia ne esce con tre dati. Il primo: gli 1,7 miliardi di prestiti e progetti infrastrutturali con i quali Roma guida la classifica dei Paesi che stanno utilizzando il meccanismo per la crescita inventato dal presidente della Commissione Ue. Il secondo e il terzo: quel 4,1 per cento del Pil per l’educazione e quello 0,7 per la cultura con i quali l’Italia si pone ben al di sotto delle medie europee. A offrire un quadro del piano d’attuazione del piano Juncker è una nota del Tesoro. L’Italia sinora è riuscita ad accaparrarsi più risorse di tutti, anche di Francia e Germania. Circa 1,4 miliardi sono stati destinati dalla Bei con la garanzia del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) a 8 progetti per infrastrutture e innovazione. Il più importante e il più noto riguarda la riqualificazione dell’acciaieria Arvedi. Gli altri progetti finanziati o in via di finanziamento riguardano la banda ultraveloce, la connessione ferroviaria tra le maggiori città italiane, l’efficienza energetica (l’introduzione dei contatori di gas 'intelligenti'), l’ampliamento delle autostrade, la tutela ambientale. Da questo primo investimento si attende di attivare una leva finanziaria da complessivi 4,8 miliardi con una ricaduta occupazionale da 3.200 posti. Altri 300 milioni del piano Juncker sono arrivati come accordi di finanziamento tra Feis e banche per attivare prestiti a una platea stimata di 44mila piccole-medie imprese, con l’attesa di mobilitare oltre 7 miliardi di investimenti (il cosiddetto 'effetto-leva' consiste nell’ipotesi che la presenza di fondi pubblici attiri e calamiti capitali privati). L’altra faccia della medaglia sono i primati negativi dell’Italia nella ripartizione della spesa pubblica (si tratta di dati Eurostat riferiti al 2014, anno in cui Renzi è andato a Palazzo Chigi). Il 4,1 per cento del Pil in istruzione è inferiore di 0,8 punti alla media Ue. Roma spende in linea con gli altri Paesi per primarie e superiori, molto meno per università, alta formazione professionale e ricerca. Prendendo come parametro il totale della spesa pubblica, in istruzione l’Italia spende il 7,9 per cento delle proprie uscite (in calo dall’8 del 2013) a fronte del 10,2 medio europeo. Se si guarda invece alla cultura, l’Italia ha speso nel 2014 lo 0,7 per cento del Pil a fronte dell’1 per cento europeo (l’1,4 delle uscite pubbliche a fronte del 2,1 Ue). Per biblioteche, musei, gallerie, teatri lo Stato ha usato lo 0,6 per cento della spesa pubblica contro l’1 dei partner Ue. Ma è la ripartizione complessiva dei soldi pubblici che non convince. La spesa pubblica 2014 è stata pari al 51,3 per cento del Pil, in crescita rispetto all’anno precedente (la media Ue è 48,2). Spendiamo molto più del resto d’Europa per i servizi generali (compresi gli interessi sul debito), la protezione sociale, la terza età e la reversibilità. Molto meno per disoccupazione, disabilità e famiglia. Marco Iasevoli © RIPRODUZIONE RISERVATA
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