sabato 16 luglio 2022
Il premier «irremovibile» sulle dimissioni, ma accorcia il viaggio in Algeria. La linea del Colle: senza di lui subito scioglimento L’ultimo tentativo del segretario dem
Partiti distanti, più lontano il Draghi-bis
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Dietro il palcoscenico della «grande trattativa » per convincere Mario Draghi a restare, i partiti hanno già iniziato le riunioni operative per il voto anticipato. Non solo la principale forza di opposizione, FdI, ma anche il 'centrodestra di governo' (Fi e Lega) e il Pd hanno svolto proprio ieri le prime riunioni operative: liste, temi, slogan, comunicazione, organizzazione... Ed è inevitabile: i più ottimisti danno la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi al 30%, mentre il voto anticipato a inizio ottobre domina tutte le previsioni. D’altra parte a Palazzo Chigi le comunicazioni sono razionate e si sintetizzano in una sola parola: «irremovibile». Irremovibile è, sarebbe, la posizione del presidente del Consiglio: andare nelle aule mercoledì per una 'operazione-verità' con M5s,

Conte e tutta la maggioranza e poi confermare le dimissioni al Quirinale. Il sottosegretario Bruno Tabacci, fedelissimo del premier, l’uomo che ha dato il simbolo (Centro democratico) a Luigi Di Maio per mettersi in proprio alle Camere, è categorico: «Se queste sono le premesse – dice mentre si vocifera di un ritiro dei ministri da parte di M5s, ipotesi poi smentita – la seduta di mercoledì diventa inutile». E al Colle, d’altra parte, non sono ore in cui si lasciano grandi spiragli: se l’ex capo della Bce tornerà con la lettera di commiato tra le mani, il capo dello Stato non farà nessun 'giro di giostra', nessuna consultazione, si procederà direttamente allo scioglimento delle Camere.

Ovviamente nessuno può dire con assoluta certezza se le posizioni di Draghi e Mattarella siano figlie del più totale e amaro realismo o servano, anche, a far capire definitivamente la posta in gioco, di modo che se delle svolte sono in incubazione, esse emergano in fretta e con profonda convinzione. Un piccolo segnale, in realtà, c’è. Ed è la scelta del premier di ridurre la durata della visita ad Algeri: pianificata per lunedì e martedì, si svolgerà solo nel primo giorno della settimana. L’intera vigilia della 'verifica' alle Camere, insomma, vedrà Draghi in pianta stabile a Roma. Un altro segnale si accumula poi durante la giornata, la transizione di Lega e Fi dal voto subito a «fare ciò che serve al Paese », con una pregiudiziale verso M5s che però potrebbe essere superata dai venti di crisi dentro lo stesso Movimento. Su queste tracce lavora il segretario del Pd, Enrico Letta, che pure non smentisce che l’ipotesi del voto anticipato resta prevalente. In mattinata, al Nazareno, il segretario dem fa i conti del «non governo» di Draghi: 22 miliardi di Pnrr che diventano incerti o da ricontrattare, 10 miliardi del decreto- Luglio che non arriveranno a famiglie e imprese...

Messa da parte la calcolatrice, Letta getta lo sguardo in ciò che sta accadendo in casa-M5s. Chiama Giuseppe Conte, con realismo gli dice che se i suoi gruppi si sfarineranno per l’uscita di decine di governisti, lui chiederà a Draghi di prendere in considerazione il «fatto nuovo», di rivalutare le dimissioni, di farsi rifiduciare da una maggioranza che comprenderebbe Lega, Fi, Pd, centristi, Leu e il gruppone di fuoriusciti da M5s, divisi tra Di Maio, Misto, centristi e, forse, lo stesso Pd. D’altra parte, è il ragionamento di Letta, quando due ministri come D’Incà e Patuanelli - entrambi sentiti dal segretario, come altri alti dirigenti M5s - dicono pubblicamente di non essere d’accordo con il leader, si stanno già mettendo fuori. E nemmeno hanno bisogno, per uscire allo scoperto, della certezza che Draghi continui: il rapporto tra loro e Conte è già consumato, non saranno certo loro i 'frontman' nelle liste del Movimento per il 2023. La scommessa è questa, insomma: portare a Mario Draghi, prima del confronto in aula, o «tutto» M5s o una «parte», nella speranza che questa «parte» sia così politicamente significativa (quantità e qua-lità) da convincere il premier a restare. È l’unica via. Strettissima. Così stretta che, al contempo, si mette in moto la macchina del voto

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