martedì 30 maggio 2017
La serie tv del momento parla di adolescenti, delle difficili relazioni tra loro e col mondo adulto. Il prodotto televisivo di Netflix apre domande educative, di cui si occupa la Chiesa di Padova.
«Tredici»: e la diocesi si interroga sulla serie per adolescenti
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È il caso di lasciar vedere ai propri figli adolescenti «Tredici», la serie televisiva di Netflix che sta spopolando tra i teen-agers? Oppure, quantomeno, è bene stare al loro fianco per aiutarli a decifrare i messaggi emotivamente assai impegnativi ma altrettanto coinvolgenti della produzione tv del momento? È pressoché impossibile che i ragazzi che frequentano medie o liceo non siano venuti più o meno direttamente a contatto in queste settimane con la drammatica vicenda di Hannah Baker, liceale californiana che nella sua scuola viene fatta oggetto di vessazioni aperte o indirette da coetanei che dovrebbero (e in alcuni casi vorrebbero, maldestramente) esserle amici ma che invece la spingono verso una condizione di crescente isolamento, fino alla tragica scelta del suicidio, ricostruita dalla ragazza in una serie di nastri incisi come un lungo atto di accusa ai compagni di scuola che avrebbero dovuto accorgersi di quanto accadeva. Le audiocassette fatte pervenire dopo la sua morte ai responsabili di atti o omissioni scatenano un campionario di reazioni e atteggiamenti sui quali viaggia la trama di un prodotto dalla formidabile efficacia comunicativa e che apre una riflessione inesorabile – talora angosciosa, cruda, anche violenta – sulla responsabilità dei propri atti.
In realtà la narrazione si dipana dal punto di approdo: la fine di Hannah è chiara sin dal primo episodio, ma nelle tredici puntate (quante sono le ragioni che hanno spinto la ragazza a farla finita) si viene accompagnati dentro una situazione sempre più estrema ma in realtà del tutto ordinaria: ragazzi che non dialogano con i genitori e che tra loro hanno relazioni banalmente sbagliate, amicizie incompiute, silenzi, sudditanze, promesse disattese, tradimenti e amori superficiali, ma anche sentimenti profondi, incantamenti giovanili e grandi sogni, tutto consumato nella quotidianità della vita scolastica di una cittadina americana. Sotto la superficie di normalità prende corpo un dramma che un’esemplare regia amplifica nel continuo gioco degli intrecci temporali, tra il prima e il dopo, tra il tempo delle possibilità e quello dei rimpianti.

Le domande aperte da Hannah


L’intensa immedesimazione dei ragazzi davanti alla tv (ma forse più spesso in solitudine con il computer o lo smartphone, grazie anche alla reperibilità della serie su siti "paralleli") pone dunque una serie di incalzanti domande educative che hanno spinto la diocesi di Padova, pressata dagli interrogativi di educatori e genitori a loro volta interpellati dalla passione dei figli per le inquietanti vicende di «Tredici», a elaborare un articolato rapporto sulle questioni sollevate dalla serie tv. La prima delle quali è, ovviamente, l’opportunità di lasciarla vedere a ragazzi che potrebbero lasciarsi suggestionare da quella che lo stesso testo diffuso dall’Ufficio comunicazioni sociali (diretto da un sacerdote giovane ed esperto di linguaggi dei media come don Marco Sanavio) definisce una possibile «miscela molto pericolosa per chi non è ancora attrezzato a gestire le frustrazioni e le ferite della vita».

Sette premesse e cinque considerazioni


A una premessa che riassume in 7 punti la storia e i temi sollevati da «Tredici» (titolo originale «Th1rteen R3asons Why», nel sito ufficiale indicata col divieto ai minori di 14 anni), vero fenomeno globale, seguono cinque «considerazioni che possono orientare alla fruizione della serie» e rivolte a genitori, insegnanti ed educatori: 1) «quanto più in erba sono i giovani che accostano questa serie tanto più è opportuno un affiancamento efficace»; 2) il consiglio è di «accompagnare la visione con un affiancamento da parte degli adulti in quanto i temi trattati si presentano estremamente delicati per chi non ha ancora una psiche strutturata»; 3) «dove possibile, è opportuno discuterne in comunità: a scuola, in ambiente parrocchiale, in contesti associativi, nell’ambito sportivo»; 4) «andrebbe ridimensionata l’enfasi con la quale il mondo degli adolescenti è presentato come un ambiente sempre adeguato, mentre la presenza degli adulti e l’ambiente scolastico è più una cornice inadeguata che un supporto alla crescita»; 5) «Hannah è presentata come il personaggio che vince su tutti, e il suicidio come l’unica via d’uscita dalla gabbia psichica che percepisce attorno a sé». Una serie di considerazioni problematiche che non portano a un giudizio censorio («proibirne la visione sarebbe veramente una misura adeguata ed efficace?») ma che rimettono la responsabilità educativa nelle mani di chi davanti a fenomeni simili tende invece ad allargare le braccia come se non sapesse che fare: gli adulti.

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