venerdì 22 marzo 2024
Una notte in reparto al policlinico Campus Bio-Medico. Paolo Gallo, medico internista “Bisogna sempre pensare che in quei letti potrei esserci io o qualcuno della mia famiglia o dei miei amici"
Ospedale, oltre la corsia e nell'al di qua
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Qui si entra nell’al di qua. Doverlo fare, si risolve per qualcuno in una seccatura, magari un po’ dolorosa, di due o tre giorni. Qualcun altro ha il futuro appeso a poco più d’un filo, il tubicino della flebo. Qualcun altro ancora non ne uscirà vivo. Nei corridoi intanto s’affacciano suoni di tivù o di dolore, qualche sorriso, qualche “come va stasera?”, “hai mangiato?” e i medici, le infermiere, i carrelli con le cene, quelli con le medicine e tutto il resto. Nelle stanze, dalle porte aperte, si vedono solo i piedi dei due letti, si sente il rumore sottile, ossessivo, degli strumenti che monitorano i parametri d’ogni paziente, meglio, d’ogni donna e uomo. Lo stesso rumore ch’esce anche dagli schermi al centro dei tre corridoi, uno per ogni ricoverato, con nome e cognome, all’interno d’un bancone a semicerchio che sembra una sorta di reception. Sembra.

Reparto di degenza del Policlinico universitario Campus Bio-Medico di Roma, una notte qualsiasi. Ch’è difficile porti consiglio, semmai speranze e paure e quasi niente sonno. Una notte prima degli esami e non è questione d’aver studiato, ma per molti di pregare. Paolo Gallo, medico internista: “I miei pazienti in questi anni mi hanno dato l’esempio della dignità nell’accettazione della sofferenza”. Veronica, infermiera, ventitré anni: “Una volta un paziente stava molto, molto male e io e le mie colleghe lo abbiamo abbracciato per non fargli sentire freddo”.

Qui i sogni rischiano d’essere piagati da decubito e le forze piegate dal tempo. “Dobbiamo sempre tener conto che chi arriva qui, arriva per un problema. E che magari ha su lui e la sua famiglia mille ricadute”, dice ancora Gallo. Qui dentro il mondo è a parte, ben separato da una finestra. Con uno scontro tra demoni e angeli e si può vincere anche senza sopravvivergli. Le emozioni sono forti e le più forti forse appartengono a chi, spesso, fuori dall’orario di visita, siede nell’anticamera del reparto: “La paura di chi è ricoverato è tanta, tantissima. E soprattutto quella della sua famiglia”, raccontano Martina Di Mambro, infermiera, ventitré anni anche lei, e Veronica.

Non c’è una barricata, qui, nessuno ne è da una parte o dall’altra, né dovrebbe mai mettercisi: “Bisogna sempre pensare – spiega Gallo - che lì, in quei letti, ci potrei essere io o qualcuno della mia famiglia o dei miei amici, bisogna sempre rendersi conto che siamo dalla stessa parte”. E poi in fondo Giuseppe Fiandra, infermiere, lo capisce: “Quando sono qui mi sento un privilegiato, sinceramente. Vedo la morte e la vita ed entrambe m’insegnano qualcosa di bello”. E Angelo Lanzara, infermiere, anche: “Avvicinarsi a vite diverse, persone diverse, con ognuno bisogna comportarsi in maniera diversa, però è sempre importante l’approccio alla vita”.

Già, è decisivo, l’approccio. E non essere indifferenti, può fare la differenza. “C’è stata un’urgenza molto grave con un paziente e siamo riusciti a riprenderlo – ricorda Martina -. Poi è guarito, del tutto. Quando me lo sono ritrovato giù nella hall del Policlinico, che camminava sulle sue gambe, beh, è stata proprio una bellissima emozione…”.

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