venerdì 20 novembre 2020
La denuncia della missione internazionale: assassinati anche minorenni fuori dai campi di prigionia
Una donna con il suo bambino in attesa del trasferimento aereo per il ricollocamento in Rwanda

Una donna con il suo bambino in attesa del trasferimento aereo per il ricollocamento in Rwanda - Foto Unhcr - Tripoli

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La Libia “non è un porto sicuro”. A ripeterlo davanti al Consiglio di sicurezza Onu è stata Stephanie Williams, provvisoriamente a capo della missione delle Nazioni UNite a Tripoli. Pur elencando una serie di progressi, Williams ha ribadito che “non è questo il tempo per autocompiacersi”. Perché i diritti umani da quelle parti sono ancora una chimera.

Dopo che nei giorni scorsi era stata la procura della Corte penale internazionale a denunciare violazioni e abusi, il capo pro tempore della missione Onu in Libia ha puntato il dito contro chi non ha smesso di calcare la mano sui migranti neanche durante il fragile cessate il fuoco.

“Quest'anno più di 11.000 migranti e rifugiati che cercavano di raggiungere l'Europa sono stati intercettati in mare e riportati in Libia, che secondo tutte le definizioni non è un porto sicuro per il loro ritorno”. Parole che suonano come un rimprovero indirizzato a quei Paesi, Italia in testa, a cui è bastato equipaggiare la cosiddetta guardia costiera libica per chiamarsi fuori dalle pesanti ricadute umanitarie.

“Centinaia si persone hanno pagato il prezzo più alto, con più di 900 migranti e rifugiati annegati o dispersi, perciò “presunti annegati”, nel Mediterraneo nel 2020. Il 12 novembre, tre naufragi mortali, registrati in un giorno, hanno affermato oltre 100 vite”.

Per molti sembra non esserci alternativa ai campi di prigionia. E chi vi si sottrae rischia la vita. “I migranti e i rifugiati rimasti in Libia hanno dovuto affrontare una impennata - ha spiegato Stephanie Williams - di gravi rischi di violazioni dei loro diritti umani”. Minorenni compresi. “Il 10 novembre, un richiedente asilo eritreo di 15 anni è stato ucciso e altri due sono rimasti feriti quando - ha ricostruito la capo missione - uomini armati sono entrati nella proprietà in cui si trovavano e hanno iniziato a sparare. La giovane vittima stava aspettando il reinsediamento dalla Libia in un paese terzo. Ciò segue altri “incidenti” di quest'anno, in cui migranti e rifugiati sono stati uccisi o feriti; molti altri sono stati detenuti arbitrariamente”.

E pensare che nelle prigioni del governo sono rimaste poche centinaia di stranieri: “All'8 novembre, più di 2.000 migranti e rifugiati si trovano nei centri di detenzione ufficiali in Libia”. Un numero esiguo, facilmente assorbibile da un corridoio umanitario europeo. Tuttavia le persone restano in balia di trafficanti e torturatori che di fatto controllano i capi statali.

Nei giorni scorsi fa stato proprio il Consiglio di sicurezza a esprimere “grave preoccupazione per il deterioramento della situazione umanitaria in Libia” e per la situazione “affrontata da migranti, rifugiati e sfollati interni”Abbastanza per chiedere al governo di Tripoli l’adozione di misure “per la chiusura dei centri di detenzione e per alleviare con urgenza le sofferenze di tutte le persone in Libia accelerando la fornitura di servizi pubblici in tutte le parti del Paese”.

A dare il buon esempio non sono le democrazie avanzate dall’Ue, ma Paesi come il Rwanda, che continuano a ricollocare sul proprio territorio centinaia di africani a cui è impedito di chiedere legalmente protezione all’Europa, ma che non hanno speranza di poter tornare nei Paesi d’origine. Ieri altri 79 provenienti dalla Libia sono stati accolti in Rwanda, dove sono arrivati con un volo da Tripoli diretto a Kigali.

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