mercoledì 20 aprile 2022
Le condanne definitive ai due carabinieri chiudono 12 anni di processi. La sorella: ucciso anche dal'indifferenza, ma credo nello Stato, l'odio non mi appartiene, e aiuterò chi ha subito abusi simili
Ilaria Cucchi

Ilaria Cucchi - ANSA - Massimo Percossi

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Dopo dodici anni di Natali e Pasque senza Stefano, domenica scorsa Ilaria Cucchi ha potuto guardare negli occhi il fratello che non ha più. E dirgli che è riuscita a rispettare la promessa fattagli all’obitorio nel 2009. La condanna definitiva del 4 aprile a due carabinieri per omicidio preterintenzionale, e il 7 aprile in primo grado ad altri otto per i depistaggi, conclude un lungo e dolorosissimo iter processuale. Per aprire una fase nuova, di bilanci e di speranza.

A Pasqua sui social lei ha scritto "È arrivato il momento di dirti addio. Ora posso lasciarti andare". Sta girando la pagina più tragica della sua vita?

Ho mantenuto la promessa fattagli all'Istituto di medicina legale: "Stefano, non finisce qui". Ci sono voluti quasi tredici anni, ma posso mettere la parola fine a questo paragrafo devastante. Oltre ad avere ottenuto la giustizia - non era scontato né semplice - abbiamo restituito dignità a Stefano, morto massacrato di botte.

Qual è stato il momento peggiore? E quale quello in cui si è riaccesa la speranza?

Sono due momenti che hanno coinciso. Fu la sentenza di appello nel 2014 del primo processo, quello sbagliato (omicidio colposo contro guardie penitenizarie e medici, ndr), che finì con l’assoluzione di tutti per insufficienza di prove. Doveva essere la pietra tombale, ma fu l’inizio. Dissi all’avvocato Fabio Anselmo: abbiamo vinto. Mi guardò come fossi impazzita per l'ennesima batosta processuale, poi capì: per tutti quegli anni avevamo sentito dire che Stefano era morto praticamente per colpa sua. Invece per la prima volta in un’aula di giustizia veniva detto che Stefano era stato picchiato, anche se non era stato possibile individuare i responsabili. Da lì la svolta. Fuori dall’aula tutti avevano già capito. Ricordo la manifestazione a Roma delle mille candele - ma le persone erano almeno il doppio - tutti in silenzio a dirci: noi siamo dalla vostra parte.

A capo della Procura di Roma nel 2012 era arrivato Giuseppe Pignatone, al quale lei chiese udienza. E lui le promise che avrebbe riesaminato tutti gli atti.

Pignatone mi ascoltò e incaricò il sostituto Giovanni Musarò. Guardando indietro, per me sono eroi. Così come Fabio Anselmo. Anch’io, mio malgrado, ho dovuto comportarmi in modo eroico: è amaro che per raggiungere questo risultato ci vogliano degli eroi, dovrebbe essere la normalità. La mia famiglia ha dovuto rinunciare a vivere il lutto nel chiuso dei propri affetti. Siamo stati obbligati a rendere pubblico il nostro dolore. Adesso inizio la fase più difficile che è l’elaborazione del lutto. Non ho avuto tempo per piangerlo. Tutto questo è stato disumano.

La sua fiducia nelle istituzioni, nei carabinieri che dovevano custodire Stefano, è vacillata? Le sentenze l’hanno rassicurata?

Queste sentenze rappresentano un riscatto per tutti, per la giustizia e lo Stato. Se non avessi creduto nelle istituzioni, non mi sarei rovinata la vita per oltre dodici anni. Ci ho sempre creduto, anche se molte volte sono stata delusa. Durante la requisitoria del primo processo la pm esordì dicendo che Stefano Cucchi era un cafone maleducato. C’è stata una lunga fase in cui il processo fu celebrato contro mio fratello e la mia famiglia. Ma ho continuato a credere nella giustizia, pur sapendo che è fatta dagli uomini. Poi le cose sono cambiate grazie a questi eroi. E siamo arrivati a un traguardo che mi consente, finalmente, di lasciar andare mio fratello.

Le accuse contro il personale sanitario sono cadute in prescrizione. Se fosse stato curato adeguatamente, si sarebbe salvato?

Io ritengo moralmente responsabili della morte di mio fratello un’infinità di persone, circa 150. Cioè i pubblici ufficiali in contatto con Stefano negli ultimi suoi giorni di vita: operatori della giustizia, forze dell’ordine, medici, infermieri. Tutti hanno visto Stefano star male e degenerare. Nessuna di loro ha mosso un dito, ha avuto la capacità di guardare oltre il pregiudizio e di vedere in quel detenuto un essere umano. Oggi probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. È morto di tante cose, ma anche e soprattutto dell’indifferenza di chi si è voltato dall’altra parte. Persone normali, non mostri.

Verso di loro che sentimenti prova nella gamma che va dall’odio e la vendetta fino al perdono?

Odio e vendetta non mi appartengono. Non augurerò mai a nessuno di soffrire. Ho cercato giustizia e verità, questo sì, perché negare la verità nega il valore di una vita. Il perdono è qualcosa di estremamente intimo. Sarei ipocrita se dicessi che oggi perdono . Dovrò iniziare un percorso, che forse mi porterà a vedere le cose in modo diverso.

Il processo per quasi tredici anni hanno monopolizzato la sua vita. Ora cosa farà?

Sicuramente continuerò ad occuparmi di questi temi. Per dare un senso alla morte di Stefano e ai tanti sacrifici. Metto il mio bagaglio a disposizione degli altri, per quello che può valere. Questa storia ha riaperto tanti casi analoghi e creato una sensibilità diversa.

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