mercoledì 1 marzo 2017
Il presidente emerito della Consulta: non si può rivendicare un diritto all'eutanasia perché la salute è anche interesse della collettività
Il presidente emerito della Consulta Mirabelli

Il presidente emerito della Consulta Mirabelli

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Usa esclusivamente argomentazioni giuridiche, Cesare Mirabelli, per commentare la situazione che si è venuta a (ri)creare nel nostro Paese in seguito alla tragica vicenda di Fabiano Antoniani-Dj Fabo. Massimo rispetto per le persone, per le loro famiglie e per il loro dolore, ma a chi reclama un 'diritto' all’eutanasia il presidente emerito della Corte Costituzionale obietta che, allo stato, non può essere previsto. La Costituzione della Repubblica stabilisce infatti nella «tutela della vita umana uno dei suoi fondamenti e all’articolo 32 sancisce la salute come 'fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività'». Cioè, la salute di ciascun cittadino è anche «interesse della collettività», ma «la salute presuppone la vita». E questo, aggiunge il professore, è «uno dei pochi casi» in cui la Carta definisce espressamente un diritto «fondamentale». Quanto alle Dat, il testo attuale rischia di fare del medico «un mero esecutore» di quello che potrebbe configurarsi come «un abbandono terapeutico » fino a sfociare in «suicidio assistito».

Insomma, non esiste un diritto a morire?

Esattamente, non esiste un diritto costituzionale alla morte. Questo non significa che la morte non possa sopraggiungere in rapporto alla mancata prestazione di trattamenti sanitari per i quali occorra il consenso della persona.

In effetti, lo stesso articolo 32 precisa che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».

Certamente, ma questa disposizione va considerata innanzi tutto come un rifiuto di esperienze precedenti, in cui si verificarono esperimenti sulle persone e trattamenti inumani. Poi c’è l’interesse collettivo. Pensiamo alle vaccinazioni o ad altri trattamenti ritenuti indispensabili per la tutela della salute pubblica: è giusto che sia la legge a stabilire quando una persona non può rifiutarsi, non possono prevederlo semplici regole amministrative. Tutto il resto rientra nella pratica del consenso informato del paziente.

Già, ma è proprio al consenso informato che si appellano in genere coloro che vorrebbero introdurre nell’ordinamento pratiche più o meno apertamente eutanasiche.

Bisogna fare attenzione, perché il consenso informato è fondamentale, è alla base del rapporto tra medico e paziente. Ma non presuppone affatto che il medico sia lo strumento delle scelte del paziente, non è un mero esecutore di ordini altrui. L’attività del medico è, deve essere, orientata alla cura, al recupero della salute, al sollievo della sofferenza. Il medico, poi, è chiamato a esprimere un giudizio di proporzionalità tra gli interventi da effettuare e le reali prospettive di riuscita o di rischio degli stessi. A questo serve il consenso informato: evitare di assumere rischi eccedenti rispetto ai possibili benefici per il paziente. Tanto che, parliamoci chiaro, è nato più che altro come un presidio 'difensivo' per i medici.

Alla Camera si sta discutendo una proposta di legge intitolata proprio 'Norme in materia di consenso informato' che prevede le Dat, disposizioni anticipate di trattamento. Come giudica il testo?

Mi sembra che 'amministrativizzi' troppo una materia così delicata. Si stabilisce che le dichiarazioni siano ricevute da un pubblico ufficiale o da un medico del Servizio sanitario nazionale... Così, anche nella forma, si tende a introdurre un vincolo per il medico. Per il resto, si tratta di principi che non avrebbero nemmeno bisogno di esplicitazione legislativa. Anche sui doveri del medico, si dà forma giuridica a formule già presenti nella deontologia professionale.

Quindi? Si tratta di una legge non necessaria?

Non giudico l’operato del Parlamento. Anzi, dico ben vengano le dichiarazioni anticipate, ma, oltre a essere modificabili in qualsiasi momento, devono sempre lasciare spazio alla valutazione del contesto. Pensi a un calciatore o a un ballerino che abbia lasciato scritto: «Se in seguito a un incidente devono amputarmi una gamba preferisco morire». Siamo sicuri che quella volontà valga ancora nel momento in cui l’incidente dovesse verificarsi, magari a distanza di anni, e l’interessato non fosse nelle condizioni di revocarla? Ecco, bisogna sempre tenere presente che la volontà si esprime in un certo contesto di vita, che può cambiare. È chiaro che il medico deve tenerne conto. Ma tenere conto è diverso da eseguire.

Fra i 'trattamenti sanitari' che è possibile sospendere sono state inserite l’idratazione e la nutrizione del paziente.

Ecco, mi pare di vedere un’assolutizzazione delle espressioni. Ci sono alcuni casi in cui idratazione e nutrizione sono trattamento sanitario ma, ripeto, è il medico a valutare benefici e costi. Il testo, così com’è, rischia di essere un campo di battaglia, soggetto a forzature ideologiche. Tutte queste formalizzazioni andrebbero sfrondate. Altrimenti ci si può legittimamente chiedere se non servano allo scopo di trasformare il medico solo nell’esecutore della scelta di non essere mantenuti in vita.

C’è il rischio di legittimare il suicidio assistito?

Purtroppo sì. Sarebbe meglio che la legge fosse orientativa più che prescrittiva e si limitasse a indicare principi e criteri anziché puntuali atti, scissi dal contesto. Il paziente (o nel caso i familiari, oppure un fiduciario) deve poter esprimere le sue preferenze, ma il medico deve poter valutare senza vincoli. In materia esistono già riferimenti basilari, come le linee guida del Comitato nazionale bioetica e la Convenzione di Oviedo.

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