domenica 7 maggio 2023
Il capitolo delle nomine, in particolare alla Rai con le sue sempreverdi logiche di lottizzazione, è da sempre uno spettacolo tutt’altro che brillante nel panorama italiano
Nomine, uno spettacolo sconfortante rinnovato fra spartizioni e ambizioni

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Il capitolo delle nomine, in particolare alla Rai con le sue sempreverdi logiche di lottizzazione, è da sempre uno spettacolo tutt’altro che brillante nel panorama italiano. Logiche spartitorie, ambizioni personali, interessi di bottega formano un crogiolo in cui la visione politica sulla gestione dei servizi pubblici si (con)fonde con la forza dei vari partiti di maggioranza. L’ultima tornata di questo “festival” degli incarichi sta raggiungendo tuttavia sommità di cattivo gusto particolarmente avvilenti, a ogni livello. Un peccato, anche perché viene dopo un “primo tempo” in cui la premier Meloni aveva dato qualche segnale in controtendenza, adottando nell’infornata relativa alle principali partecipate pubbliche criteri non strettamente legati alle bandiere partitiche (vedi soprattutto la conferma di Descalzi all’Eni e la “scommessa” di Cingolani in Leonardo).

Ora abbiamo assistito invece al varo, all’interno di un decreto-legge (quindi con caratteri di “necessità e urgenza”), di una norma, giustamente etichettata come “ad personam”, partorita apposta per trovare una sistemazione a Carlo Fuortes, amministratore delegato nonché dg (voluto da Mario Draghi) di quella tv pubblica in cui il centrodestra vuole ora dettar legge per «cambiare la narrazione del Paese», per citare il sottosegretario Mazzi. Il 64enne Fuortes (che peraltro non pare aver prodotto finora grandi novità a viale Mazzini) non si accontenta però di aver tenuto per due anni le redini della maggiore azienda culturale del Paese ma, con una logica che antepone l’interesse personale al servizio pubblico come dovrebbe essere inteso, per lasciare prima del tempo chiede che gli sia trovata una “consona” sistemazione alternativa. Per questa ragione il governo si è visto indotto a varare una norma “urgentissima”, secondo Palazzo Chigi: “ridurre” cioè a 70 anni l’età pensionabile dei sovrintendenti degli enti lirici.

Questo per costringere il francese Stephane Lissner a lasciare l’unico posto su piazza che sia evidentemente ritenuto da Fuortes adeguato al suo rango, ovvero quello del San Carlo di Napoli (essendo gli altri occupati). Il quale Lissner, pur essendo già un ricco pensionato in Francia, ora non vuol cedere a quello che considera un ricatto e minaccia battaglia legale. Oltre a mostrare pure lui attaccamento alla “poltrona”, a riprova che questa caratteristica non conosce confini nazionali. Ne vien fuori un quadro d’insieme fatto di piccolezze umane assortite. E che risalta ancor di più nel momento in cui il governo si èincartato per un’altra nomina, per la Guardia di Finanza, che ha visto emergere una faglia fra la premier Meloni da un lato e autorevoli ministri (anche degli stessi Fratelli d’Italia) dall’altro. Per di più con l’assurdità di coinvolgere già oggi pure il capo della Polizia (che non è in scadenza) solo per sistemare altre “caselle”.

Questo nodo dovrebbe essere sciolto la prossima settimana, ma a sua volta apre interrogativi sulle “porte girevoli” fra i corpi militari e civili e le società pubbliche che, peraltro, nelle loro attività sono controllate anche da quei corpi. Fino ai casi di Inps e Inail, che in teoria non dovrebbero essere soggetti allo “spoils system”, ma che di fatto lo diventano, in una logica per cui la lottizzazione dei posti si critica solo quando si sta all’opposizione, ma poi la si applica quando si diventa maggioranza. E con il paradosso creato dalle privatizzazioni, per cui le società interamente pubbliche non esistono più e il sistema dei partiti ha perso forza rispetto a un tempo, ma le nomine continuano a esistere e ad accendere la “fame” della classe politica. E soprattutto continuano a oscurare quello che dovrebbe essere un criterio pesante nelle scelte: il merito.

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