mercoledì 31 agosto 2022
Niente è più triste di un paese che muore
I piccoli centri in difficoltà e l’impegno della chiesa

Archivio Ansa

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Una volta li chiamavano semplicemente paesi. Poi per una lenta e progressiva conversione lessicale, molti di essi sono diventati borghi. Un salto (in alto) quanto ad eleganza di termini. Un salto in giù se si tien conto di quanta vita è venuta mancare tra l’uno e l’altro stadio. Borgo è un termine avvenente e triste allo stesso tempo.

Lascia pensare alla bellezza, ai modi acconci in cui anche un piccolo agglomerato può presentare se stesso mettendo in mostra non solo il meglio, ma anche la parte più appariscente di sé; un paese lustrato a nuovo, versione carta patinata, coi tocchi di colore dei fiori ai balconi, le piazze e le strade linde, i vicoli curati e addobbati quasi più delle case, il pavimento intorno ai centri storici – quasi tutti con il castello alle spalle – di pietra levigata, e posata a terra come un ricamo.

Da paese a borgo, il passaggio non è tuttavia automatico. Anche per un piccolo centro può essere difficile rimettersi in sesto e indossare l’abito adatto per prendere parte, con qualche possibilità di successo, a quella grande fiera chiamata turismo, che ha aperto padiglioni in ogni angolo della Penisola. Un flusso che non ha trascurato neppure i 'paesi dell’osso' – come li chiamava il meridionalista Guido Dorso – quelli abituati ad affollarsi in estate e nelle feste patronali, non di forestieri ma di figli propri, emigranti di brevi e occasionali ritorni. Non si chiameranno mai Borghi i paesi delle zone interne, aggrappati alla grande dorsale appenninica che attraversa tutta intera l’Italia.

Anche urbanisticamente sono altra cosa. Le strade portano ancora, come un antico e malinconico trofeo, i segni della vita grama che è sempre passata da quelle parti, e i caseggiati, le mura intorno non hanno tracce di quell’arredo urbano che è come una vernice di modernità spalmata un po’ a posticcio su pietre antiche e quasi tutte sgretolate. Nemmeno a cercare a fondo questi paesi di pietra scarna, troverebbero le risorse giuste per rifarsi una vita a misura di turismo e offrirsi a un mercato che mostra di apprezzare un tipo di offerta che mette insieme vecchio e nuovo, antico e moderno. Paesaggi e vedute vintage, ricoperti da una patina di nostalgia per un mondo che pure non racconta tutte favole a lieto fine.

La natura ha sempre fatto pochi sconti, e soprattutto negli ultimi 40 anni – dalla Campania e dalla Basilicata, come dalla Val Nerina e da Camerino, dall’Aquila e da Amatrice – sono stati i terremoti ad aprire, anzi spalancare, le ultime e più drammatiche vie di fuga. Anche la pandemia ha colpito più duro che altrove e non c’è crisi, come la tragedia della guerra nel cuore dell’Europa, che non annerisca un quadro già fosco. Di questi paesi, anzi di queste zone, sparse in tutt’Italia e non solo nel Mezzogiorno, si stanno prendendo sempre più cura non i promoter turistici e tantomeno politici e amministratori, ma i vescovi, i Pastori di zone che ai loro occhi, puntati sulla vita piena, sfioriscono giorno dopo giorno.

Proprio oggi a Benevento si conclude un’altra importante tappa di questo percorso avviato insieme tre anni fa da diocesi di dodici regioni, e seguito con grande interesse e partecipazione da tutta la Chiesa italiana ( la chiusura dei lavori è affidata al presidente della Cei, Matteo Zuppi) .

Sono ormai i 'paesi dell’addio', di un esodo inarrestabile ma che non fa rumore e lascia traccia soprattutto nel silenzio e nel vuoto che si crea alle spalle; in quella vita piena che svanisce a ogni casa disabitata, a ogni scuola costretta a chiudere per mancanza di alunni, a ogni bottega che s’affaccia su piazze o strade sempre più vuote. A ogni giovane che, per necessità, cerca altre strada. È vita che viene a mancare. E niente è più triste di un paese che muore, avvolto in un’agonia che prima di tutto umilia, con quei segni che uno dopo l’altro cadenzano il ritmo di una veglia triste e dolente. Si attutiscono i rumori fino a sentire i propri passi che rimbombano tra vicoli e stradine deserte.

A ogni tratto incombe il 'c’era una volta' messo a guardia non tanto del passato, quanto di un futuro sempre più difficile da praticare. La prospettiva che più di ogni altra sembra farsi strada è quella della rassegnazione. C’è la globalizzazione a fornire l’alibi giusto. Che mai saranno quei puntini sparsi e quasi invisibili disseminati sulla nuova carta geopolitica di un mondo in trasformazione? Portano i segni di una dimenticanza antica, quasi uscita dal corso ordinario della storia. Ma la sfida dei vescovi è proprio su questo versante.

Di rassegnazione neppure a parlarne e restano al bando anche gli obiettivi minimi. I vescovi non si vedono infatti per 'salvare' ognuno il proprio pezzo di terra, la propria porzione di zona interna, come se l’Italia si potesse affettare e dividere per destini separati e divergenti. Hanno deciso di vedersi per salvare tutti insieme non i singoli paesi, ma un Paese che si chiama Italia. E che certo non può lasciare indietro, o peggio, all’abbandono il patrimonio di umanità, cultura e saggezza di un territorio, che, peraltro, ha tutte le carte in regola per offrire più alti livelli di vita. Quella dei vescovi è tutt’altro che un’azione di pronto soccorso sociale, ma è l’esatto contrario dell’irresolutezza e della latitanza di altri, anche di certi intellettuali col dito sempre alzato. A guidarli è un’attitudine pastorale che in queste aree pone continuamente a confronto l’uomo e il suo territorio. Un confronto che spesso diventa sfida. E che mai come ora richiede di mettere in campo coraggio e speranza.

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