martedì 23 dicembre 2014
​La storia di Pietro. E di altri piccoli. Il Natale vissuto nel reparto di terapia intensiva della neonatologia all’ospedale San Gerardo di Monza.
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Il ticchettio monotono e ininterrotto delle macchine che monitorano le funzioni vitali si mescola ai vagiti dei neonati nelle culle termiche. Una mamma dorme su una poltrona sdraio tenendo sulla pancia due gemelli partoriti prematuramente da pochi giorni. La chiamano marsupioterapia, è una pratica nata in Colombia diversi anni fa e divenuta prassi negli ospedali di mezzo mondo, per mantenere vivo il contatto dei neonati col ventre della donna che li ha ospitati durante la gravidanza. All’ingresso, un albero di Natale con minuscole calzette colorate appese ai rami. Nascite fragili, come quella di Gesù a Betlemme: qui dentro è più facile percepire cosa è Natale. Dodici culle, dodici corpicini che lottano per sopravvivere. È una battaglia quotidiana e ininterrotta, quella che si combatte nel reparto di terapia intensiva della neonatologia all’ospedale San Gerardo di Monza, diretto dal dottor Paolo Tagliabue. Il dottor Giuseppe Paterlini ci lavora da più di 20 anni e nel 2002 è stato testimone di un evento prodigioso che la Chiesa ha poi riconosciuto come miracolo. Protagonista Pietro Schilirò, nato con gravi problemi respiratori, che sembrava destinato a morte precoce e invece, dopo che i suoi genitori hanno pregato i coniugi Zelia e Pietro Martin (genitori di Santa Teresa del Bambin Gesù), è guarito. «La storia di Pietro ha segnato la mia vita è quella di molti, qua dentro – racconta Paterlini –. Per un mese, più volte abbiamo detto ai genitori che non c’era nulla da fare, dopo avere constatato l’inefficacia dei nostri tentativi terapeutici. Poi un primo miglioramento, del tutto inatteso, seguito dalla guarigione, inspiegabile da un punto di vista strettamente medico. Dopo qualche mese, quando è stato istruito il processo ecclesiastico per il riconoscimento del miracolo, a me e ad altri due colleghi è stato chiesto di redigere la storia clinica del bambino. Ricostruendola, ho rivissuto lo stupore per quanto era accaduto sotto i nostri occhi. Non siamo noi a decidere se quello sia stato un miracolo: sta di fatto che la guarigione implorata dai genitori e da tanti loro amici è arrivata». In seguito al riconoscimento dell’evento miracoloso, i coniugi Martin sono stati beatificati dalla Chiesa il 19 ottobre 2008. In una stanza del reparto, appesa a un pannello, c’è la foto di Pietro Schilirò, che oggi ha 12 anni, abbracciato da Papa Francesco durante un’udienza in piazza San Pietro. Accanto, le immagini di neonati che sono passati di qui. Molti sono ancora vivi, altri non ce l’hanno fatta. «In questo lavoro, forse più che in altri, si diventa consapevoli che la vita, ultimamente, non è in mano nostra – racconta Paterlini –. Dobbiamo fare il possibile perché questi piccoli guariscano e abbiano un futuro, e certamente la neonatologia ha fatto grandi progressi in questi anni. Ma non sempre le cose hanno un esito positivo. La realtà si impone al di là dei nostri tentativi, e l’ultima parola non la diciamo noi». A volte capita di assistere bambini che nascono senza speranza di sopravvivenza. «Si potrebbe pensare che in questi casi la presenza del neonatologo sia inutile... Ma il nostro compito è assistere i pazienti al meglio. Non sempre l’obiettivo è la guarigione, a volte può essere la riduzione della sofferenza, avere cura che i pochi momenti di vita del neonato possano essere vissuti con pienezza, che i genitori possano accoglierlo e accompagnarlo anche per pochi giorni, per poche ore». Come è successo con una donna romena incinta di due gemelli, uno dei quali affetto da agenesia renale bilaterale, malformazione incompatibile con la vita. Insieme al marito aveva rifiutato l’aborto selettivo per non mettere a rischio il gemello sano. Quando sono nati, la mamma ha voluto prendere in braccio quello malato per coccolarselo nei pochi minuti in cui sarebbe rimasto vivo. Poi ha chiamato il pope ortodosso che ha amministrato il battesimo. «Io e l’infermiera che era con me ci sentivamo impotenti, potevamo solo guardare e stare a fianco dei genitori, accompagnare stupiti e ammirati per la loro forza e la loro fede». Come si fa ad aiutare una madre e un padre ad affrontare una diagnosi infausta, ad aspettare una nascita che si annuncia problematica, senza cedere alla disperazione? «La malattia è sempre l’evidenza di un limite, spesso viene percepita come un fallimento da parte dei genitori, come l’incapacità-impossibilità di avere un figlio sano, che è il desiderio di ogni madre e di ogni padre. Anni fa una mamma, dopo avere visto il nostro reparto dove era stato portato il figlio, disse: "Posti così non dovrebbero esistere, sarebbe meglio che bambini conciati in questo modo morissero". Le sue parole mi hanno interrogato a lungo, non avevo una risposta pronta da dare allo smarrimento e all’amarezza di quella donna. Abbiamo cominciato a coinvolgerla nel percorso di assistenza che avevamo predisposto, e nel tempo il suo atteggiamento è cambiato, è diventata consapevole del valore che quella vita aveva di per sé, al di là del suo stato di salute. E quando se l’è portato a casa, con un carico di problemi non da poco da affrontare, è diventata un esempio stupefacente di cura e di amorevolezza nei confronti di un figlio gravemente disabile. Qui dentro s’impara a guardare il malato per il mistero che porta, ci si educa a capire che non è riducibile alla somma delle patologie che lo affliggono. Si capisce che l’uomo è più del suo limite, vale molto più delle sue capacità. E che ogni nascita è un piccolo miracolo in cui la vita manifesta la sua grandezza e la sua fragilità».

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