Le urla del parto si confondono col rumore delle onde, mentre la vita prepotentemente decide di esplodere nel buio della notte, in mezzo a un mare minaccioso, che è anche l’unica strada per la libertà. Ma Feketre le ha già dimenticate, come tutte le mamme che, dopo un travaglio difficile, ricordano solo la gioia di avercela fatta e aver potuto guardare negli occhi quell’esserino testardo, deciso a venire al mondo malgrado tutto. Lo dice il suo sorriso, mentre finalmente tiene di nuovo tra le sue braccia il piccolo Yeabsera, letteralmente "Dio lavora" o "dono di Dio" in tigrino. È questa l’unica lingua in cui si esprime Feketre Aleme, la donna etiope di 26 anni, fuggita al nono mese di gravidanza dalla Libia assieme al marito Asfaw Belay, 27 anni, e protagonista di un parto rocambolesco la notte del 26 marzo in un barcone disperso nel Canale di Sicilia con circa 300 profughi a bordo. Seduta accanto alla culletta termica di una stanza del reparto di Neonatologia dell’ospedale Cervello-Villa Sofia di Palermo, tiene in grembo il piccolo "miracolo" e lo guarda con occhi di meraviglia e di gratitudine. Si scrutano a vicenda mamma e figlio, che ha due occhi neri profondi e maturi, come di chi ha visto già abbastanza in appena tre giorni di vita. Il loro cordone ombelicale, chiuso alla meglio con un filo sul barcone e poi reciso sull’elicottero che li ha portati in salvo, in realtà è un filo di speranza che li unisce. «Sono felice, perché grazie a Dio sono entrata sana e salva in Italia e ho avuto questo bambino - dice con un sorriso, aiutata nella traduzione da una suora comboniana che comprende la sua lingua -. Mio figlio deve essere un italiano, perché è nato in Italia. Qui ci aspetta una vita migliore».Feketre è travolta dall’amicizia e dalla solidarietà dimostrata dal personale dell’ospedale, da volontari e da semplici cittadini che le hanno portato tutine, scarpette di lana, body intimi. «Una signora di Milano - racconta l’assistente sociale dell’ospedale, Maria Giovanna Di Stefano - ha telefonato perché vuole donare una somma a questa famiglia. Insomma, si è scatenata una gara di solidarietà». Non appena sarà dimessa, cosa che potrebbe avvenire già oggi, Feketre troverà ad accoglierla la casa della comunità di laici comboniani "La zattera". Dorotea Passantino e Maria Montana sono lì, accanto a lei, sono diventate due volti familiari. Come quelli del dirigente medico Linda Pasta, dei primari di Ostetricia, Desiderio Gueli Alletti, e di Neonatologia, Giorgio Sulliotti, dell’assistente sociale e delle infermiere. A tutti Feketre e Asfaw raccontano la loro storia di etiopi in fuga da Tripoli in fiamme. Lui vive in Libia da due anni, fa il muratore, mentre lei si guadagna da vivere con lavori domestici. Conoscono uno scafista a Tripoli, pagano in anticipo 600 dollari a testa e aspettano. Sperano che il bambino nasca prima della partenza, ma all’improvviso arriva l’ordine: si parte. Non avevano scelta. Meglio l’incognita del mare che la guerra, le violenze e la persecuzione nel Paese di Gheddafi. Dopo quattro giorni in balìa delle onde, sopra a un barcone malconcio di legno, le doglie del parto, improvvise. Asfaw si improvvisa ostetrico, lo aiutano altre donne stipate sulla barca. Ha paura che la moglie non ce la faccia. «Durante la traversata abbiamo incontrato una nave militare canadese, che ci ha lanciato solo acqua e biscotti», racconta l’uomo, che ieri ha passato la mattinata in questura per l’identificazione. Poi arrivano i soccorsi.Ascoltano la storia il direttore generale dell’ospedale, Salvatore Di Rosa, e l’assessore regionale alla Salute, Massimo Russo, che afferma: «Il sorriso di questo bambino è la migliore testimonianza di come la vita sia più forte di tutto. Dobbiamo fare di tutto, anche l’impossibile, per assistere e curare nel miglior modo possibile tutti gli immigrati che sbarcano in Sicilia, che non sono carne da macello, ma uomini, donne e bambini che vivono drammi».