venerdì 25 dicembre 2009
Natale all’Aquila, dove il terremoto ha fatto crollare le case ma non la certezza che la vita valga la pena d’esser vissuta, ha ucciso uomini e donne ma non la speranza e l’amore. Tre storie di «ripartenza».
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Viaggio a Coppito. Al cuore del dolore dimenticato. Nell’Aquila ancora scossa, impaurita, e piena di rabbia. Le case sono solo facciate: la notte del 6 aprile le ha svuotate, gli ha succhiato l’anima di traversine e cemento, di soffitti e pareti. Fuori, no, quel diavolo le ha lasciate appena scalfite. Una beffa.Tolti alcuni edifici del centro città, che si sono accartocciati – come la Casa dello Studente, oggi una rete, e un crocifisso appeso, e dietro una voragine trasfigurata dalla nebbia – il terremoto sembra essersi preso gioco degli aquilani, lasciando dietro sé un’inutile vetrina impolverata. E quanto piace, ai curiosi che a pochi giorni dal Natale fanno capolino in città, provare l’emozione di scoprire la tragedia: li vedi agli angoli delle strade con le macchine fotografiche, la bocca spalancata, il caschetto. Elettrizzati e un po’ mesti aggirano i palazzi-fantoccio, clic, e poi via verso un altro spettacolo. Il terremoto turistico: all’Aquila è gratis. Ed è un’altra beffa, perché questo fenomeno da baraccone, questo palcoscenico di personaggi famosi e non, queste spianate ormai sgombre di tende, e spolverate di neve, un tempo erano una città.Natale all’Aquila, una tristezza che sale fino agli occhi e fa piangere: la gente si sente sperduta; le case dove si riunivano le famiglie nella migliore delle ipotesi sono inagibili, nella peggiore non esistono più. In mezzo, migliaia di sfumature, tutte ugualmente drammatiche: quella di chi vive ancora nella roulotte in giardino, perché la casa è un nemico troppo grande da affrontare; quella di chi ha un alloggio nuovo, caldo e sicuro, ma non ha più una famiglia con cui riempirlo; quella di chi è in cassa integrazione o ha perso il lavoro, l’azienda fallita nello spazio di appena una settimana, e talmente tanti problemi che come si fa, a fare festa? Natale all’Aquila, una speranza che scende nel cuore e commuove: perché la gente sperduta sorride, si stringe davanti alle foto di chi non c’è più, e vuole andare avanti; perché la vita non è finita, la terra non ha inghiottito l’amore, la casa sarà ricostruita, la famiglia si è allargata ai vicini di tenda e ai compagni di fuga.Cansatessa: quell'adorazione perpetua nella Betlemme dell'AquilaCansatessa, Betlemme dell’Aquila: fino ad aprile era l’ultima parrocchia della città, l’unica che non aveva una chiesa tutta sua. La gente si spostava, per andare a Messa. Il parroco, don Marco, la celebrava altrove. Il terremoto che ha azzerato tutto, invece, ha deciso di esibirvi uno dei suoi tanti miracoli: l’ultima parrocchia è stata la prima a riavere una chiesa. La prima chiesa vera, nell’Aquila distrutta anche nei suoi luoghi di fede. Col suo legno trentino e il campanile da fiaba, la chiesetta di Cansatessa ha fatto il giro dei telegiornali, ma entrarci è tutta un’altra storia. Qui è Natale da settembre, ogni giorno. Lo vedi sul volto della gente: un ragazzo con le cicatrici del sisma, un altro con la chitarra e la voce di Venditti, le donne anziane, le giovani mamme e i bambini. Da quando l’hanno riavuta, la loro chiesa, per loro è nato anche Cristo. E l’hanno atteso tanto, tanto hanno gioito nel poterlo reincontrare, che con don Marco hanno deciso di organizzare un’adorazione eucaristica perpetua: giorno e notte, a turno, se ne stanno lì a vegliarlo, a parlargli, in ginocchio. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, vanno ad adorarlo, in una silenziosa processione. Il presepe vivente di Cansatessa. Alle otto di mattina fa capolino Maria, che di mestiere fa l’infermiera, e che tra i turni in ospedale tira fuori anche le notti con Gesù. E di Gesù parla, Maria, come se l’avesse appena accompagnato a fare commissioni, come se avessero trascorso del tempo tenendosi per mano, e Lui le avesse dato tutte le risposte, tutte le spiegazioni, anche quelle che lei non aveva chiesto. Come perché il terremoto le abbia portato via i genitori, e la casa. «Stanca io? – risponde alla coppia di novelli sposini che le si avvicendano nella "grotta" –. Anzi, mi sembra di poter lavorare per giorni senza riposare». Se ne va via sgambettando, dopo aver fissato al tabellone in fondo alla chiesa il "fogliettino"adesivo che segnala il prossimo appuntamento.Coppito: la forza della famiglia extra-large che si reinventa casa e lavoroElvira e Domenico, nove splendidi figli, la Sacra Famiglia in formato extra-large. La notte del terremoto anche loro hanno abbandonato casa. I ragazzi si sono "salvati" uno a uno, i più grandi – Raffaele, Giovanni e Chiara – radunando i più piccoli: l’appello per strada, manca Maria, la corsa per recuperarla, la fuga giù, da Coppito fino allo slargo di Centi Colella, insieme a migliaia di altri, con il terrore di perdersi, la paura del domani. Poi la vita nella tenda, in undici, per un mese. Le brande vicine vicine, il piccolo Andrea che la notte si sveglia e urla «mamma mamma, ma è un sogno? E quello che sento è ancora il terremoto?» «Sì, Andrea», e le carezze di Elvira fino a farlo riaddormentare. Ora sono tornati a casa, e anche questo è Natale. I ragazzi più grandi hanno messo da parte sogni e progetti per ricostruire l’attività di Domenico, andata alla malora con il sisma. Lo raccontano come fosse normale: «E che cosa avrei potuto fare? – dice Chiara –. Era naturale così". Naturale, per lei, a 25 anni, rinunciare al suo lavoro da designer d’interni, conquistato con la laurea e la specializzazione a Milano, per mettersi a passare scartoffie in un container-ufficio, nel piazzale dell’azienda di alcuni amici di famiglia. Già, perché Domenico e i ragazzi si sono reinventati un lavoro: fanno i traslochi dalla case fantasma del centro a quelle nuove e hanno anche affittato dei capannoni, perché per chi non ha ancora una sistemazione definitiva ci vuole un posto sicuro dove mettere la propria roba. Domenico e i ragazzi coi camioncini, a salvare pezzi di vita altrui rimasti incastrati sotto le macerie; Chiara ed Elvira in container, a rispondere alle telefonate e a chiudere un occhio coi clienti più insistenti, quelli che vogliono andare a vederli un giorno sì e un giorno no, i loro mobili, perché anche se accatastati in pochi metri quadrati, gli uni sugli altri, quelli sono ancora casa, in qualche modo bizzarro e struggente. Le giornate per la famiglia Fidanza non finiscono mai: ti dicono con gli occhi felici che il terremoto non ha avuto l’ultima parola, non su di loro. I più piccoli sono tornati a scuola: la mamma scorrazza su e giù dalla collina dell’Aquila per accompagnarli, prenderli, fare la spesa. La sera si stringono a tavola e pregano prima di iniziare a mangiare. Natale, tutte le sere, a casa di Elvira. Lo «sciopero» di Giustino in attesa di una Sua rispostaEd è Natale ad Onna, con le sue ferite inguaribili, con la sua commovente speranza. Onna dei cadaveri in fila, Onna della strage degli innocenti: quella che ha travolto anche la vita di Giustino Parisse, giornalista de Il Centro, che alle feste si prepara senza figli. Sepolti dalle macerie nel sonno, entrambi, Domenico a 18 anni e Maria Paola a 16. Persi per sempre. «Sembra banale, ma questo sarà il Natale più brutto della mia vita», racconta, mentre gli occhi salgono ai due ritratti appesi nella sua nuova casa, fra quelle donate dalla Croce Rossa al paese distrutto dal sisma. Le linee a matita, e i colori, bastano a riportare in vita i suo ragazzi: «A Domenico piace tanto il Natale – dice Giustino – fa sempre tante foto, quando è nevicato l’anno scorso ne ha scattata una a ogni angolo della nostra Onna. Ed era così felice, quando son tornato a casa, nel farmele vedere…». Giustino, Natale e la fede. Quel 6 aprile l’ha fatta tremare anche dentro di lui, l’ha messa in ginocchio: «Ho continuato a chiedere perché. Perché mi sono stati strappati i miei figli, perché mio padre? E mi sono sentito come un operaio che lavora in un’azienda per tanti anni, e poi all’improvviso viene lasciato a casa, e decide di protestare, di scioperare anche, non perché voglia male al suo datore di lavoro, ma per fargli capire quanto è importante per lui lavorare, quanto si sente trattato ingiustamente». Lo "sciopero" di Giustino, la prova immensa del Credo: lui non ha urlato al cielo, non ha smesso di andare in chiesa, non ha tolto la bella statua della Madonna di Lourdes dallo scaffale in cucina. Lui c’è. Ogni domenica, accanto a don Cesare e ai suoi compaesani. Sta lì. «Non faccio nulla, non partecipo alle celebrazioni come gli altri anni. Ma devo starci – continua – perché so che arriverà una risposta, prima o poi, so che vedrò il segnale, e capirò». Giustino che aspetta la sua cometa, sospeso tra un mondo distrutto e uno che tenta di rinascere, a Onna.
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