mercoledì 29 settembre 2010
Parto cesareo alla 28ª settimana per la donna somala in stato di morte cerebrale. La bimba, 800 grammi, non è ancora fuori pericolo, ma respira da sola.
- Quella forza misteriosa che sa regalare la vita di Lucia Bellaspiga
- Intervista al primario Gollo
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È venuta alla luce ieri mattina poco dopo le 10, con un parto cesareo, la piccola Idil. Ha lo stesso nome della madre, la donna somala di 28 anni in stato di morte cerebrale da un mese all’ospedale Sant’Anna di Torino dopo avere subito un intervento per l’asportazione di un tumore al cervello nel vicino Cto, sfortunatamente con esito negativo. E con la nascita della piccola il marito della donna, Issa Muhyaddin Jimcaala, 34 anni, ha dovuto assistere anche alle ultime ore di vita, attaccata alle macchine, di sua moglie. La commissione medica incaricata di valutare lo stato della donna si è riunita ieri alle 16. Passate le sei ore di rito, ne ha decretato la morte e il conseguente spegnimento dei macchinari. La bambina sta bene. Pesa meno di 800 grammi e non è ancora fuori pericolo, ma respira autonomamente ed è tenuta sotto stretto controllo. Il papà non ha potuto assistere al parto cesareo, resosi necessario per il peggioramento delle condizioni del corpo della madre (nella mattinata di ieri si è registrato un improvviso rallentamento del battito cardiaco) e che è durato pochissimo. Dieci minuti, come aveva chiesto lui, e sotto l’effetto di sedativi. «Volevo soltanto che non soffrisse ulteriormente», aveva chiesto all’équipe medica del reparto di neonatologia, diretto dal primario Tullia Todros. È stata lei a valutare i rischi per la bimba: giunta a questo punto, nascere era meno pericoloso che continuare a restare nell’utero della madre. Date le circostanze critiche, il periodo di osservazione durerà almeno una settimana. Idil, ossia «bellezza e compiutezza dell’essere». Issa ha voluto che una vicenda tragica si concludesse con un barlume di positività. Per lui è stato un periodo difficilissimo. È passato dalla gioia del vedere la sua amata dargli un bambino al dramma di vederla ammalarsi di cancro. Insieme hanno fatto il viaggio della speranza: dalla Somalia a Torino, dove abita suo cognato. La donna ha provato la strada dell’intervento chirurgico, la sola che potesse salvarle la vita. Ma è andato male. Da quella tragedia è poi nata la speranza: tenere in vita in modo forzato il corpo della madre per salvare il feto di quella che ormai sapeva essere una femminuccia. La gioia della nascita e, a distanza di poche ore, l’ennesimo dolore provocato dal distacco dei macchinari che tenevano ancora in vita il corpo di sua moglie. Ora chiede di stare tranquillo accanto alla sua piccola: «Quando sarà grande, le dirò che è un miracolo vivente».«Sbaglia chi sostiene che la scienza può fare a meno di un indirizzo etico» ha commentato il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, ma nel caso avvenuto a Torino, «non riesco a intravedere nessun problema di ordine etico». Secondo Roccella, «si tratta di un’alleanza per far nascere una vita, di uno straordinario e sorprendente connubio tra la scienza e la vita. A dimostrazione che i progressi della medicina portano risultati straordinari quando sono a favore della vita umana». Quello di Idil, madre e figlia, è un caso raro ma non unico. Negli ultimi anni ci sono stati episodi analoghi, alcuni dei quali hanno coinvolto mamme in coma o in stato vegetativo anche da quattro mesi. La difficoltà maggiore che hanno incontrato i sanitari dell’ospedale torinese è quella delle poche settimane di gestazione della giovane somala: ieri era appena cominciata la ventottesima. Il più recente caso analogo è quello avvenuto alla fine maggio a Bergamo dove era nata Gaia, dopo 33 settimane di gestazione: la sua mamma era in coma da quattro mesi dopo un’emorragia al cervello.
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