sabato 14 febbraio 2009
Non basta pronunciare il sermone in italiano. Serve una preparazione teologica all’altezza. E la conoscenza degli elementi culturali e giuridici che fondano la civiltà occidentale. Chi deve prendere l’iniziativa dei corsi di formazione? Serve un albo per le guide della preghiera? Le strade per mettere da parte gli imam «fai-da-te» Redouane (moschea di Roma): non possiamo sdoganare l’ignoranza in nome della fede. Souad Sbai: lo Stato ha il diritto e il dovere di Pallavicini: arginare la moltiplicazione di personaggi impreparati Pesa il «congelamento» della Consulta istituita da Pisanu.
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Il sermone che accompagna la pre­ghiera del venerdì nelle moschee dev’essere pronunciato in italiano, in modo che sia possibile control­lare che «non ci sia alcun tipo di pre­dicazione e istigazione all’odio, du­rante un momento che deve essere soltanto di tipo religioso». La propo­sta lanciata qualche settimana fa dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha raccolto molti consensi e qual­che imam si è premurato di dire che questo già avviene in decine di luoghi di preghiera. Dopo qualche giorno, come spesso avviene in Italia, il tema sembra essere già tornato nel dimen­ticatoio, mentre continua a infuriare la polemica sulle moschee che si vor­rebbero costruire in varie città. Il vero nodo da sciogliere – al di là del­la questione linguistica già di per sé rilevante – è la preparazione del per­sonale religioso che guida le comu­nità musulmane, quasi sempre sprov­visto della necessaria formazione teo­logica e della conoscenza degli ele­menti culturali e giuridici che fonda­no la nostra società. Carenze non da poco per chi svolge un ruolo che non è soltanto spirituale ma che ha gran­de rilevanza nell’indirizzare idee e scelte dei fedeli. «Dobbiamo ammet­terlo, abbiamo gente di basso livello – denuncia Asfa Mahmoud, architetto giordano, presidente della Casa della cultura islamica di Milano, dove al ve­nerdì si radunano in quattromila per la preghiera –. Troppi gli imam auto­proclamati, che non hanno i numeri per guidare una comunità e spiegare il Corano tenendo conto del Paese in cui si vive, nel rispetto delle sue leggi e delle sue consuetudini, favorendo i processi d’integrazione e sconfessan­do chi vuole la separazione in nome dell’identità. C’è un’ignoranza diffusa che dev’essere superata con una for­mazione adeguata». Che fare? E chi do­vrebbe prendere l’i­niziativa? Il maroc­chino Abdellah Re­douane, segretario del Centro islamico d’Italia dove ha sede la Grande Moschea di Roma, un’idea ce l’ha: un master per i­mam, incardinato presso un ateneo ita­liano. Il curriculum di studi dovrebbe comprendere teologia islamica, sto­ria della civiltà islamica, mistica, di­ritto costituzionale italiano, diritto pri­vato, storia dell’Europa, diritti umani, dialogo interreligioso. Potrebbero ac­cedervi persone che, oltre a una suf­ficiente padronanza dell’italiano, pos­siedono già i fondamenti del sapere i­slamico. «Non si può ammettere gen­te che parte da zero, altrimenti ci vor­rebbero 15 anni di studio. Ci vorrà un esame di ammissione per seleziona­re le domande: non possiamo sdoga­nare l’ignoranza in nome della fede e dobbiamo offrire garanzie di serietà anche a quella parte di opinione pub­blica che guarda con diffidenza a tut­to ciò che si muove all’interno delle moschee». Secondo Souad Sbai, ex presidente della federazione delle comunità ma­rocchine in Italia e deputata del Pdl, «la diffidenza ha le sue buone ragio­ni, se consideriamo quello che varie inchieste giudiziarie hanno portato alla luce. Sono troppi gli imam fai-da­te, troppe le moschee in cui,anziché e­ducare alla convivenza, si predica la separazione o l’odio per chi non è mu­sulmano. Da troppo tempo la que­stione non è più soltanto religiosa, ci sono aspetti legati alla sicurezza. Lo Stato ha il diritto e il dovere di sapere con chi ha a che fare. La massima traspa­renza su quanto viene detto durante il ser­mone del venerdì e sulla preparazione di chi guida la preghiera è utile alle istituzioni ed è un bene per i tan­tissimi fedeli che trop­po spesso ricevono un insegnamento che strumentalizza il sen­timento religioso a scopi politici». Sia la Sbai sia Redouane propongono di rilan­ciare il ruolo della Consulta per l’islam italiano (istituita nel 2005 dall’allora ministro dell’Interno Pisanu) come luogo di confronto da cui potrebbe u­scire una proposta per istituire corsi di formazione superiore per guide spiri­tuali islamiche, che andrebbe poi messa a punto da un gruppo di acca­demici ed esperti. In più la Sbai pro­pone l’istituzione di un albo a cui do­vrebbe obbligatoriamente essere i­scritto chi vuole esercitare la funzio­ne di imam. «L’albo dev’essere una condizione vin­colante per evitare la moltiplicazione degli pseudo-imam», concorda Yahya Pallavicini, segretario generale della Coreis, che vorrebbe affidarne la ge­stione al ministero dell’Interno e lo­calmente alle prefetture, «in attesa che prenda forma una rappresentanza condivisa e riconosciuta dell’islam i­taliano, purificato da ingerenze di Pae­si stranieri». Secondo Pallavicini anche i corsi di formazione devono essere promossi dallo Stato italia­no, «con il contributo di or­ganizzazioni islamiche cre­dibili e affidabili. E devono puntare alla formazione di personale che possa forni­re assistenza spirituale non solo nelle moschee ma an­che in ospedali, carceri, ci­miteri, dove c’è una do­manda di tipo religioso che chiede risposte religiose». La Coreis ha già promosso autonomamente iniziative di formazione da cui in questi anni sono uscite de­cine di imam. Tutti rigoro­samente italiani, e che per ora si rivolgono a un ri­stretto universo di fedeli anch’essi italiani. La partita più importante si gioca però all’interno delle comunità straniere, dove è in atto da tempo u­na guerra sotterranea – e che ogni tanto fa sentire i suoi clamori anche in su­perficie – per un’egemonia che è insieme religiosa, sociale e po­litica. L’Unione delle comunità e or­ganizzazioni islamiche in Italia (U­coii), che si vanta di controllare la stra­grande maggioranza delle moschee (735 nel 2007) censite dal ministero dell’Interno, è oggetto di contestazio­ni sia al suo interno sia da altre asso­ciazioni musulmane. La Consulta per l’islam italiano – dove si sono a lungo confrontate e spesso aspramente combattute le diverse anime del mon­do musulmano e che aveva contri­buito alla stesura della Carta dei valo­ri, primo segnale dell’accettazione dei principi che stanno a fondamento del­la nostra società – è stata sostanzial­mente ibernata (o piuttosto, come si moromora, definitivamente sepolta?) dall’attuale titolare del Viminale, Ro­berto Maroni. Che finora si è impe­gnato sul versante del controllo e del­la repressione delle derive fonda­mentaliste e terroristiche, piuttosto che sulle misure per favorire l’inte­grazione. D’altra parte (vedere box) i tempi non sembrano ancora maturi per giunge­re a una rappresentanza unitaria e condivisa dell’islam d’Italia, capace di dare vita a iniziative forti come la pro­mozione di un’«alta formazione» per le guide del culto. Chi si muoverà per primo? Con quali credenziali? Con quale seguito? Da questa «palude ita­lica » bisogna uscire al più presto, pro­muovendo iniziative che garantisca­no la libertà religiosa, una prepara­zione teologica e culturale adeguata e in armonia con le leggi di questo Pae­se, nel rispetto assoluto dei principi che fondano la convivenza civile. Al­trimenti il rischio è che nella palude nascano insidiose sabbie mobili, in cui crescono sentimenti di estraneità e ostilità. E allora sarebbe peggio per tutti. Musulmani in preghiera nella Grande Moschea di Roma. Costruita dai Paesi arabi nel 1995, è la più grande d’Europa. Secondo una rilevazione del Viminale, nel 2007 erano 735 i luoghi di culto islamici in Italia
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