lunedì 23 giugno 2014
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Nessuna rivoluzione anti-austerity né riscrittura del Patto. La scommessa di Matteo Renzi è che la Commissione Ue "cominci" a fare politica, ovvero assuma il Fiscal compact come una rete a maglie larghe che consenta all’Ue e ai governi nazionali di rilanciare il Pil senza mettere in discussione il tetto del 3 per cento e gli obiettivi di riduzione del debito nel medio periodo (per l’Italia, un ventesimo all’anno dal 2016). Il Fiscal compact, in effetti, già prevede questa possibilità quando dice che «le parti contraenti possono temporaneamente sostenere deficit solo per tener conto dell’impatto sul bilancio del ciclo economico e, al di là di tale impatto, in caso di circostanze economiche eccezionali, o in periodi di grave recessione economica, a condizione che ciò non metta a repentaglio la sostenibilità di bilancio a medio termine».Italia e Francia sostengono che sinora la flessibilità già inscritta nelle regole non sia stata adeguatamente utilizzata. Roma ha iniziato a usare le deroghe, coi governi Monti e Letta, per pagare i debiti della pubblica amministrazione. E il Def di Renzi-Padoan ha già incassato un risultato importante: nel 2015 Roma non rispetterà il deficit concordato, poi recupererà il ritardo accumulato l’anno successivo, contando magari su una maggiore crescita e su maggiori entrate fiscali. Bruxelles ha detto «sì», e può rappresentare un precedente significativo.L’altro pezzo non realizzato del Patto riguarda gli investimenti pubblici europei attraverso i project bond. Quando fu siglato l’accordo, il premier era ancora Monti. Si parlava di 130 miliardi di euro da investire su reti digitali, energia, grandi infrastrutture. Non si è visto nulla di concreto, finora. Così come ci sono margini perché la famigerate "raccomandazioni semestrali" ai Paesi diventino "su misura", meno standardizzate.Questo è il campo dell’immediatamente praticabile. Poi ci sono idee note e stranote, come i "contratti per le riforme", veri e propri patti Ue-Stato nazionale in cui il secondo si impegna a chiudere alcune riforme, e Bruxelles assicura dei margini di spesa. Così com’è tutta da costruire, in termini di consenso a Berlino e nei Paesi del Nord, l’ipotesi di scorporare dal computo del deficit gli investimenti produttivi, in particolare su scuola, ricerca, tutela del territorio, opere strategiche.
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