mercoledì 20 gennaio 2021
Figura storica del Partito comunista italiano, aveva 96 anni. Per concessione dell'editore Marsilio, pubblichiamo un brano del suo ultimo libro, scritto con Petruccioli e in uscita il 27 gennaio
Emanuela Macaluso in una foto del 2011

Emanuela Macaluso in una foto del 2011 - Fotogramma

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È morto ieri a 96 anni Emanuele Macaluso, figura storica del Partito comunista italiano. Voce critica e autorevole, è stato parlamentare, sindacalista e giornalista (direttore dell’Unità, poi del Riformista), fino all’ultimo attento e acuto osservatore politico, apprezzato per la profondità dei suoi ragionamenti anche da chi non ne condivideva le idee. Compagno di battaglia di Togliatti, Longo, Amendola, Pajetta e Berlinguer, Macaluso era nato a Caltanissetta nel 1924, da padre operaio delle ferrovie e madre casalinga. Iscritto clandestinamente al Pci nel 1941 (a soli 17 anni) nel pieno della II guerra mondiale, fu dirigente della Cgil nel 1947, poi deputato regionale siciliano per tre legislature. Nel 1960 entra in direzione con la corrente riformista dei "miglioristi" (la stessa di Giorgio Napolitano). Eletto alla Camera, inizia una lunga carriera parlamentare, passando poi al Senato, fino al ’92. Pubblichiamo qui, per gentile concessione dell’editore Marsilio, un brano tratto dal libro "Comunisti a modo nostro. Storia di un partito lungo un secolo" (pp. 486, euro 18), scritto con Claudio Petruccioli e in uscita il 27 gennaio.

Emanuele Macaluso in una foto del 1988

Emanuele Macaluso in una foto del 1988 - Archivio Ansa

di Emanuele Macaluso

Durante il governo con Ugo La Malfa, Aldo Moro non aveva più la posizione assunta nel primo centro-sinistra da lui presieduto, dal 1964 al 1968. Allora era stato lui ad alzare un muro verso il Pci, a escludere ogni convergenza: teneva così a bada la destra democristiana, che aveva accettato il centro-sinistra con difficoltà. Con il governo Moro-La Malfa la sua posizione cambia: non sollevò mai obiezioni riguardo a possibili convergenze di voti del Partito comunista su atti e iniziative del governo. Per questo motivo il Pci aveva una posizione di apprezzamento nei confronti di quel governo: nella situazione data, a noi pareva che quella fosse la frontiera più avanzata e che quindi andava, bene o male, salvaguardata.

Lo conferma un episodio. Nel 1975 sono stato per un periodo non breve in ospedale a Cortina, e alla fine dell’anno vennero a trovarmi Bufalini e Chiaromonte. In quei giorni De Martino (all’epoca segretario del Partito socialista italiano, ndr) stava preparando la sortita che avrebbe aperto la crisi. Bufalini gli telefona - credo che avesse parlato anche con Berlinguer - e gli dice di non fare la follia di mettere in crisi il governo.

Quel governo, con i socialisti che stavano fuori e ponevano il problema dei comunisti dicendo "o stiamo tutti insieme al governo o noi ci sfiliamo", era considerato dal Pci un governo di transizione importante. A De Martino lo dicemmo tutti e tre: ma lui fu irremovibile, e rispose che l’articolo l’avrebbe scritto e pubblicato. Ed è lì che aggiunse: "Bisogna finirla con i socialisti che scuotono l’albero, e i comunisti che raccolgono i frutti". […]

A quel punto matura in Moro l’esigenza di creare le condizioni per delle maggioranze e dei governi che non debbano più dipendere dalle decisioni dei socialisti. Elabora ulteriormente l’idea dell’allargamento dell’area democratica, che aveva avuto fin dall’avvio del centro-sinistra: la sua linea prevedeva di estendere l’area delle forze che potevano partecipare al governo e in questa fase pensa e opera per affrontare il problema di un primo passo dei comunisti in questa direzione.

Anche con l’obiettivo che non fosse più decisivo il giudizio dei socialisti. Questa linea si incontra con quella del Pci di Berlinguer, che l’aveva esposta negli articoli sul compromesso storico. Quegli articoli non inventavano nulla, come ho già accennato, perché quella era stata sempre la politica di Togliatti, ma le davano attualità e concretezza. La questione non era più il rapporto con il mondo cattolico, con la parte di quel mondo favorevole a riforme di struttura verso il socialismo: il problema era il rapporto con la Democrazia cristiana.

Berlinguer - e tutto il gruppo dirigente - ritiene che questa sia anche l’occasione per uscire dalla condizione che si era determinata dopo il 1947, con la guerra fredda e con l’esclusione del Pci da ogni possibile rapporto di governo; e inoltre che si apra una possibilità per rompere un modo d’essere della politica, per aprire una fase del tutto nuova.


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