giovedì 25 ottobre 2018
Angelo Mainini, responsabile sanitario della Fondazione Maddalena Grassi: «Chi giudica da che livello di sofferenza diventa lecito sospendere la vita? Non può esistere una legge valida per tutti»
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Aiutare una persona a suicidarsi qualora sia affetta da «sofferenza grave e irreversibile» può diventare lecito? Ovvero contemplato dalla legge e quindi non più punibile, come attualmente è? «Il primo problema salta subito all’occhio: chi giudica da che livello di sofferenza in su puoi giustificare un atto che va contro il diritto costituzionale alla vita? Questi non sono concetti matematici, non si misurano come la glicemia, e il rischio che non possiamo correre sarebbe di porre una regola uguale per tutti su una realtà che invece è assolutamente soggettiva e dipende da quanto davvero si è fatto per lenire la sofferenza». A sostenerlo è il fisiatra Angelo Mainini, responsabile sanitario della Fondazione Maddalena Grassi, ovvero non solo un medico che, per la sua specialità, ha seguito migliaia di pazienti in condizioni di gravissima disabilità o malattia, ma nella fattispecie colui che tra i suoi assistiti ha avuto proprio Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, il giovane dalla cui tragedia prende le mosseil dispositivo della Consulta sul "suicidio assistito".

"Tutti i giorni al fianco di disabili gravissimi"

Da un lato, dunque, c’è il diritto alla vita che va sempre preservato, dall’altro un presunto diritto a decidere se la sofferenza è ormai giunta a un livello tale per cui agevolare il suicidio di un uomo non è più un reato. «L’importante è non discutere di queste cose da un punto di vista ideologico o teorico, ovvero lontano dall’esperienza reale», ammonisce Mainini. «Io vedo che la risposta alla sofferenza in senso globale è affrontata in modi del tutto diversi: c’è chi soccombe in una situazione magari non così grave e chi, in casi molto più complessi, non ha bisogno di particolari supporti. È un campo molto soggettivo, che nessuna norma può validamente rappresentare senza il rischio di creare danni, questi sì irreversibili».

In Svizzera il kit del suicidio anche ai depressi

Il preambolo irrinunciabile, avverte Mainini, è che il suicidio è sempre un fallimento, mai una conquista, è il finale più tragico, «perché l’uomo è fatto per la vita. Io lo vedo tutti i giorni non in chi sta bene, ma nei pazienti più gravi, che pure lottano per vivere». Un preambolo non superfluo, in tempi in cui il suicidio è a volte mitizzato come simbolo di autodeterminazione. «Ci vuole più coraggio a vivere che a togliersi la vita – ricorda il fisiatra – così come ci vogliono più motivazioni a dare assistenza che a fornire un kit per l’eutanasia». Insomma, la cosa più difficile, ma anche l’unica degna di una società pienamente civile, è chiedersi per ogni uomo sofferente se si è fatto tutto per lui, se gli si è dato tutto ciò di cui aveva bisogno per non arrivare a dire il suo "basta" alla vita. «Non dimentichiamo che in Svizzera l’eutanasia, ipocritamente chiamata suicidio assistito, è fornita persino ai casi di depressione, quando cioè la persona non è ovviamente lucida e cosciente, come richiede la legge, per prendere una decisione così definitiva».

Ogni caso è a sé

Se in tutti noi il caso di dj Fabo è rimasto impresso per la pietà che suscita, per chi quotidianamente fa il lavoro di Mainini è tristemente frequente. «Tutti i giorni lavoro al fianco di pazienti con la sua stessa gravità e vi dico che non c’è una ricetta valida per tutti, non è possibile porre l’asticella oltre la quale sia lecito togliere la vita, perché la realtà è ben più complessa e le variabili sono troppe, molto dipende dalla situazione familiare, dalle cure ricevute, dagli amici, dal sostegno spirituale... Spesso guardo i pazienti e mi chiedo da dove traggano tutta quella energia vitale, diventano loro il catalizzatore attorno al quale i familiari, gli amici, i medici stessi trovano il coraggio di procedere». Mainini ha ben presenti tanti ricoverati negli hospice che, consci che il loro tempo è limitato, «mi raccontano di quanto quel mese vissuto in pienezza accanto al marito o alla moglie abbia un’intensità mai conosciuta prima», o i malati “terminali” che, aiutati dalle cure palliative fino alla sedazione, «muoiono naturalmente e senza perdersi un attimo della loro vita». Ma anche quelli che terminali non sono, anzi, per anni vivono immobili in un letto, «chiedendo con un puntatore oculare che gli si sposti una mano o gli si gratti una guancia», eppure non vogliono morire...

Lo spettro eutanasia

Il punto, però è: se invece si fosse certi che per “quel” singolo paziente si è fatto davvero di tutto ma lui volesse morire? Si può imporre la vita a chi la rifiuta? «Si è voluta la legge sulle Dat – risponde Mainini –, dunque già adesso è possibile rifiutare una cura o un respiratore, in pratica si può già decidere di morire. Nemmeno più questo basta? Dunque si tendeva all’eutanasia? Le volontà estreme come quella di Fabo si contano sulle dita di una mano, non si può determinare una regola su una realtà che non è bianca o nera ma ha mille sfumature e richiede di essere valutata caso per caso». Soprattutto perché, conclude, una legge deve solo guardare a essere giusta: «Cercare un sistema legislativo per indicare fino a che limite bisogna curare e dove invece è lecito sospendere non le cure (cosa già possibile) ma addirittura la vita è irreale e pericoloso».

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