mercoledì 27 settembre 2023
La storia degli imprenditori che si sono ribellati alla legge del più forte. Per qualcuno la "scomparsa è la fine di un'epoca". Per altri servirà tempo per capire se qualcosa è davvero cambiato
Il carro funebre del boss al cimitero di Castelvetrano

Il carro funebre del boss al cimitero di Castelvetrano - Reuters

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Trapani non è solo la “borghesia mafiosa” che ha fatto affari grazie a Matteo Messina Denaro e ne ha garantito la latitanza. Non solo imprenditori conniventi, ma anche quelli che hanno detto “no” ai tentativi di infiltrazione. Come due donne imprenditrici, storie molto diverse dalle donne della famiglia di “U Siccu”, che molto probabilmente ne raccoglieranno l’eredità. Silvia Bongiorno ha invece raccolto l’eredità del fratello Gregory, presidente di Sicindustria (Confindustria della Sicilia occidentale), imprenditore di Castellammare del Golfo nel settore dei rifiuti, con centinaia di dipendenti, che nel 2013 aveva denunciato i suoi estorsori e fatti condannare. Ad appena 47 anni, è morto improvvisamente sei giorni dopo l’arresto del superlatitante che aveva commentato in modo entusiasta. «È un giorno di festa, è la vittoria di tutti coloro che hanno sempre creduto nello Stato». Silvia Bongiorno ha le stesse convinzioni. «La morte di Messina Denaro è la fine di un’epoca storica che ha visto uno stragista atroce dominare i nostri bellissimi territori. Ma è anche un nuovo inizio che vede gli imprenditori impegnati per la legalità e lo sviluppo locale, che devono andare di pari passo. E si può fare perché oggi abbiamo lo Stato che ci sostiene». È ottimista l’imprenditrice. «Gli imprenditori sono stanchi e hanno voglia del cambiamento, di creare imprese sane». Certo non tutti. «Ci può essere ancora qualcuno che si fa condizionare però sono ottimista. Se ognuno di noi pone le basi per il cambiamento, potremo vedere una rinascita nel nostro territorio. Iniziando dai più piccoli. Per toglierli dalla strada. Facendo capire che si può lavorare e in maniera onesta». Anche quegli imprenditori che in questi anni hanno fatto affari con Messina Denaro, ai quali Silvia lancia un appello. «È possibile staccarsi da questo sistema marcio. Bisogna schierarsi dalla parte del giusto, non piegarsi, ribellarsi. Io vedo un futuro migliore». Anche perché «chi si è ribellato al “regno” di Messina Denaro continuerà a farlo con gli eventuali suoi eredi. Non torna indietro. E poi penso che oggi lo Stato osserva molto più questo mondo che è dietro a Messina Denaro, a tutela degli imprenditori. Bisogna essere positivi, mai pensare al peggio». Meno ottimista, ma altrettanto convinta delle sue scelte è Elena Ferraro proprietaria della clinica Hermes a Castelvetrano, il paese di Messina Denaro. Un’attività che ha difeso con coraggio, denunciando nel 2013 il cugino del boss. La sua clinica doveva diventare una “lavatrice” di denaro sporco. Era la perdita della libertà. Ma lei andò subito a denunciare, ottenendo arresti e condanne. L’imprenditrice ricorda che «nella provincia di Trapani nessuno pagava il pizzo perché quella di Messina Denaro era una mafia imprenditoriale. Faceva affari infiltrandosi nelle aziende. Quello che volevano fare con la mia». Una strategia precisa quella del boss che “aveva capito che la strategia stragista era sbagliata e avrebbe portato quasi la fine di Cosa nostra». Così evita azioni eclatanti come attentati agli imprenditori. «Anzi voleva far crescere le aziende, si avvicinava a quelle in difficoltà mettendo capitali e facendole emergere attraverso la concorrenza sleale. Non faceva leva sulla paura». Lei stessa ne è testimone. «Ho potuto dire di no, mandare persone in galera e non è accaduto nulla. Hanno provato a intimidirmi ma sono viva. Faceva leva sulla lusinga. E purtroppo gli imprenditori cedono perché si prospettano guadagni facili». Sul futuro ha un timore. «Si è rotto un equilibrio perché tutti facevano riferimento a lui. Dobbiamo cominciare a temere perché non sappiamo quali saranno i nuovi equilibri. Non so se ci saranno violenze, se vorranno colpire simboli dell’antimafia per accreditarsi agli occhi dei nuovi capi. Dovremmo sentirci liberi, ma io non lo percepisco». A partire dal suo paese. «Ho fatto un giro e mi ha colpito il silenzio. Era deserto. Mi ha angosciato. Come se la città fosse a lutto, perché con lui si è chiusa un’epoca. Una situazione di tristezza generale. Anche io ho una tristezza ma perché non ha chiesto perdono ai familiari delle vittime, non si è pentito». Ma non tutto è finito con la morte del boss. «Sicuramente prima di morire ha avuto il tempo di designare l’erede o gli eredi, ha sistemato i suoi affari. E l’economia trapanese potrebbe ancora essere condizionata». Per questo lancia l’ennesimo appello. «Ho sempre invitato gli imprenditori a denunciare e lo faccio ancor più oggi. Perché se è vero che la mafia non ammazza più, accettare questo tipo di infiltrazione, alimenta un sistema corrotto e sporco di sangue».
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