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Si annunciano dodici mesi densi. E la partenza non si annuncia facile. Dall'Italia rimbalza negli Stati Uniti una nota i capigruppo M5s di Camera e Senato, Francesco Silvestri e Stefano Patuanelli. «Torniamo a chiedere ancora una volta che la ministra Santanchè lasci il suo incarico e per questo abbiamo depositato, sia alla Camera, sia al Senato, una mozione di sfiducia individuale. Il rinvio a giudizio della ministra evidenzia per l'ennesima volta l'inopportunità politica e la gravità della sua condotta. Il Parlamento ha il dovere di non chiudere gli occhi davanti a comportamenti di questo tipo. Giorgia Meloni, salvando Santanchè già una volta, ha leso la reputazione del Paese. Ora basta». Meloni ovviamente in queste ore ha altre priorità ma il nodo Santanchè si lega a un nodo ancora più grande: l'aggiornamento (per capirci l'eventuale rimpasto) della squadra di governo. L’ipotesi rimpasto, ventilata dopo l’assoluzione di Salvini nel processo Open Arms, sembra rientrata, ma prima o poi tornerà d’attualità e Meloni dovrà destreggiarsi abilmente per impedire scossoni. La sua scommessa è consolidare la sua leadership senza però cannibalizzare gli alleati, Lega e Forza Italia, che potrebbero non gradire e far venir meno il loro appoggio all’esecutivo. Nell’attuale Parlamento, sia il Carroccio che gli azzurri sono numericamente determinanti per la tenuta del quadro politico e dunque alla Meloni potrebbe non convenire ridimensionare ulteriormente gli alleati.
Le grandi questioni si accavallano. Meloni ha davanti un quadro che pare funzionare. La «credibilità e l’affidabilità del Governo, ribadita anche con la legge di bilancio che abbiamo varato da poco si traduce in una diminuzione dello spread e dei tassi sulò debito e accresce sempre più l’appeal dei titoli di stato italiani che, ad ogni nuova emissione, stabiliscono un nuovo record di richieste». Con queste parole Meloni ha voluto dare inizio alla riunione del secondo consiglio dei ministri del 2025. E in effetti due sono le buone notizie «sull’efficacia del governo» che la leader di Fdi ha voluto evidenziare. Da un lato, sono protagonisti i conti pubblici: sui titoli di stato «pagheremo 10,4 miliardi di euro di interessi in meno nel biennio 2025/26 rispetto a quanto avevamo previsto nel Def dell’aprile 2024». E i dati migliorano anche rispetto a settembre scorso, aggiunge Meloni: «Con l’UpB che ha stimato per i prossimi anni un livello di spread inferiore in media di 30 punti l'anno rispetto a quanto previsto dal governo nel Piano strutturale di bilancio 2025, con un risparmio sugli interessi di 17,1 miliardi complessivi nel periodo 2025-29 (sono 4,3 miliardi nel biennio 2025/26)». Tutti i «miliardi risparmiati sono miliardi in più da spendere nella sanità, nella scuola, nel sostegno ai redditi più bassi, nel taglio delle tasse, negli investimenti nelle infrastrutture».
È un programma denso quello che ha in testa la premier. Ma non mancano le insidie. C'è la Lega che insiste sul terzo mandato. C'è il destino di Daniela Santanchè sempre in bilico. C'è lo stallo non ancora superato sui giudici della Corte Costituzionale. C'è l'Autonomia che rischia di essere affondata dal referendum. E c'è pure la necessità di capire che cosa fare sul ddl sicurezza. Dal 21 dicembre la Corte Costituzionale ha solo 11 dei suoi 15 componenti, il minimo legale per poter deliberare. Di qui la necessità di convocare con urgenza il Parlamento in seduta comune per l’elezione dei 4 giudici mancanti. Circolano tanti nomi ma al momento non ci sarebbe ancora la quadra, cioè un’intesa bipartisan. Peraltro è attesa proprio per oggi la decisione della Corte sull’ammissione del referendum abrogativo del ddl sull’autonomia differenziata, primo importante tassello sulla strada delle riforme promosse dal centrodestra. La composizione della Consulta assume dunque un rilievo certamente politico, il che acuisce le tensioni tra maggioranza e opposizione sulla nomina dei 4 nuovi giudici. Poi - come dicevamo - c'è il referendum. Non basta. Due riforme si legano. Il premierato è il cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia, l’autonomia differenziata è la ragion d’essere della Lega. Le due riforme sono indissolubilmente legate ed è impensabile che ne passi solo una delle due. Il governo resta in piedi solo se passano entrambe o se vengono congelate entrambe. E poi c'è la prova delle urne: nel 2025 si vota in sei Regioni. Oltre a Campania e Veneto (caso De Luca e caso Zaia per capirci), saranno chiamate alle urne anche Marche, Puglia, Toscana e Valle d’Aosta. Inoltre si voterà in migliaia di comuni, tra cui 16 capoluoghi di provincia. Tra i due schieramenti c’è però una differenza sostanziale: il centrodestra litiga sui candidati ma l’alleanza non è in discussione; il centrosinistra, invece, è prigioniero dei veti incrociati, ad esempio tra Renzi, Calenda e i Cinque Stelle. E alla fine anche i prossimi dodici mesi ci potrebbero raccontare di una Giorgia Meloni saldamente al comando.