sabato 20 agosto 2022
L’impegno della Chiesa nel mondo per superare conflitti, violenze e contrapposizioni. Le testimonianze dei vescovi di Mosca, Bangui e Gerusalemme
Il Meeting di Rimini edizione 2022 è iniziato oggi con un incontro dedicato alla costruzione della pace

Il Meeting di Rimini edizione 2022 è iniziato oggi con un incontro dedicato alla costruzione della pace - Meeting di Rimini

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«Per i cristiani la pace è un dono, e come tale va accolta e riconosciuta. Per il mondo, invece, è l’instaurarsi di un certo potere, e occorre che qualcuno faccia certi sacrifici, mentre altri no; è quindi sempre una menzogna la pace del mondo...». Monsignor Paolo Pezzi parla di pace da Mosca, in videoconferenza da quello che chiamavamo “L’impero del male” quando la guerra in Europa era soltanto una terribile minaccia. «Il dono della pace non è, innanzitutto una conquista umana: possiamo sforzarci quanto vogliamo, ma non raggiungeremo la pace dopo un certo passo di un certo cammino». Questo perché «la pace è una esperienza presente che riverbera la certezza affettiva del rapporto con Cristo». Applausi al Meeting.

Mentre parla, l’arcivescovo cattolico si trova a sedici minuti d’auto dal Cremlino e – francamente – nessuno si aspetta di più, al termine dell’incontro sugli “artigiani di pace” che ha aperto il Meeting dell’amicizia tra i popoli, ieri mattina. Invece, uno dopo l’altro, Pezzi, lancia due messaggi inequivoci.

Racconta di aver parlato del perdono con una ragazza ucraina, il cui fratello era stato richiamato alle armi e di averle detto «che suo fratello doveva certamente imbracciare un fucile e uccidere, o essere ucciso, per difendere la patria, perché la patria è un valore importante, e in certe occasioni può richiedere la vita. Ma senza perdono suo fratello avrebbe portato l’odio con sé tutta la vita, o nella tomba, e non avrebbe potuto contribuire alla “conversione” del suo “nemico” in “fratello”».

Parole forti e dure. Nessuno s’immagina la conversione di Putin. Piuttosto, l’arcivescovo rinnova l’esortazione di Giovanni Paolo II a «costruire la civilità della verità e dell’amore», che il papa santo la pronunciò a Rimini nel 1982. Breznev stava morendo. Wojtyla era stato eletto solo quattro anni prima e con i viaggi apostolici in Polonia era iniziato il count down che avrebbe portato al crollo del muro di Berlino. Il suo, commenta Pezzi, fu un «annuncio profetico e molto attuale».

Come è attuale la sensazione della Palestina di essere stata abbandonata dalla diplomazia internazionale, testimoniata ieri dal patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa, o la difficoltà di uscire dal clima della guerra civile nella Repubblica Centrafricana, raccontato in diretta dal cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui.

«Sul piano politico e sociale israeliani e palestinesi sono accomunati dalla mancanza di fiducia: nessuno si fida più di nessuno e nessuno vuole più sentire parlare del processo di pace dopo il fallimento» ha spiegato Pierbattista Pizzaballa, descrivendo uno scenario di grande fragilità politica, aggravata dalla crisi economica che a Gaza è esplosiva.

«C’è la coscienza tra i palestinesi di essere stati abbandonati dalla comunità internazionale che non si occupa già di loro che sono rimasti soli a lottare per il loro Paese, per la Palestina. In questo contesto si lavora per giustizia e pace dando una parola di verità ma che dia anche fiducia e superi la rassegnazione e la ribellione» ha spiegato, peraltro senza eludere le difficoltà, legate sia alle differenze culturali sia a quelle religiose. Se è pur vero che «difendere i diritti di Dio significa anche difendere i diritti dell’uomo», bisogna comunque comprendere che «non si può parlare di giustizia e pace dal punto di vista cristiano senza parlare di perdono». In altre parole, nella martoriata Terra Santa «non si può pensare a un futuro sereno se non si libera la storia dall’enorme bagaglio di ingiustizie del passato. Non si tratta di dimenticare, ma sarà difficile costruire un futuro sereno se si pone alla base della propria identità nazionale e sociale l’essere vittima. In questo il perdono è fondamentale».

Monsignor Pizzaballa ha rivendicato il diritto di difendere la pace con i toni e la storia che gli sono propri – «Il patriarca Sabbah è stato un eroe ma i tempi sono cambiati, io provengo da una storia diversa e per essere credibile devo essere coerente con quello che sono» – e ha messo in guardia contro l’uso politico di questa battaglia. Lottare per la pace può condurre alla solitudine – «devi accettarla come una via necessaria, perché il tuo servizio dia frutto quando magari non ci sarai più» – ma Gesù e Barabba non erano uguali. Il secondo era un ribelle che proponeva un messianismo concreto e voleva liberare il suo popolo, il primo ha perdonato gratis, dalla Croce, «per liberare tutti gli uomini».

Realisticamente, Pizzaballa ammette che il perdono cristiano «può sembrare una sconfitta» ma ammonisce che solo il perdono «è un gesto autenticamente rivoluzionario».

È sicuramente rivoluzionaria la piattaforma interreligiosa che nella Repubblica Centrafricana ha fatto e sta facendo da diga alle violenze scaturite dalla guerra civile.

Ne ha parlato il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, secondo cui «la pace sta diventando il bene più prezioso che l’umanità sta cercando»; eppure, il mondo sta ancora applicando il paradigma politico della pace, che «è equiparata alla vittoria del più forte sul più debole, di chi ha più potenza di fuoco, e la definisce come assenza di guerra, come la rinuncia di uno dei protagonisti al conflitto aperto», mentre «la pace è la capacità di rinunciare alla violenza anche quando si è capaci di usarla, è il frutto di dialogo e di un accordo raggiunto dopo grandi difficoltà, scendendo dal proprio piedistallo per andare incontro all’altro; questa pace affonda le sue radici in Dio: la riceviamo da Gesù che ha dato la propria vita per riconciliare popoli e nazioni. Cristo è colui che di due ha fatto una cosa sola, come dice San Paolo agli Efesini».

Ieri il porporato africano ha raccontato gli sforzi fatti negli anni della guerra civile insieme ai protestanti e ai musulmani. «Quando i ribelli hanno preso il controllo nel 2013 le violazioni dei diritti umani erano all’ordine del giorno ma non ho mai smesso di denunciarle – ha dichiarato –, neppure quando alcuni uomini d’affari romeni sono venuti da me a nome dell’autorità per offrirmi 80mila euro, che ho rifiutato».

Il cardinale non ha nascosto di essersi sentito «bersaglio e testimone scomodo da eliminare» ma «mettendoci al servizio della pace riceviamo in cambio una forza invisibile che ci aiuta a superare le prove» ha spiegato, rievocando di aver rincorso i ribelli «a mani nude» nella capitale per impedire loro di derubare i civili, di essersi recato in commissariato a costituirsi quando arrestarono il pastore della Chiesa protestante, ottenendone la liberazione, e di aver lavorato con l’imam per difendere «la maggioranza silenziosa terrorizzata dall’orrore della violenza che dilagava».

Questa collaborazione prosegue e ha impedito la strumentalizzazione politica delle religioni centrafricane, ma «ottenere la pace significa cambiare le cose» ha osservato. Per raggiungere questo risultato, è necessario intervenire sul linguaggio che oggi è conformato alla violenza della politica. E cita Osea: «Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza».

Invoca una «lingua della verità per un mondo giusto e fraterno: la vera pace non si può raggiungere solo con l’uso della forza ma si ottiene quando si conoscono le cause della guerra che di solito nascono da situazioni di ingiustizia sistemica». Nelle sue parole risuona l’auspicio di una pagina nuova – quella “degli eroi della pace” – ma anche la condanna di una certa globalizzazione che ha spogliato l’Africa e che invece «dev’essere una opportunità in cui tutti sono chiamati a partecipare al benessere e alla felicità».

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