giovedì 17 febbraio 2022
Il magistrato: «Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone»
Gherardo Colombo

Gherardo Colombo - archivio

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La giustizia è cambiata. Trent’anni dopo lo scoppio di Tangentopoli, la corruzione resta un costume nazionale, la politica rincorre ancora vecchi fantasmi e i magistrati non sono più eroi da prima pagina. «Manca il senso della comunità, dello stare insieme» sottolinea oggi Gherardo Colombo. Figura simbolo di Mani Pulite, da quindici anni ha lasciato la toga ed è diventato una delle voci più ascoltate della società civile, per il suo impegno nelle scuole e nell’associazionismo sui temi della legalità. Dai corsi di formazione con i gesuiti alle battaglie per i migranti, è rimasto in prima linea, pur lontano dai riflettori. Per questo può raccontare adesso cosa è stata quella stagione e cosa occorre cambiare, dai limiti dell’azione penale alla necessità di percorsi nuovi, «che permettano il recupero di chi ha sbagliato», sottolinea Colombo.

Trent’anni dopo Tangentopoli, si tende a parlare di quella inchiesta come di una rivoluzione mancata. Lei stesso ha detto che «Tangentopoli è finita, ma non la corruzione». Quale fu il merito storico di quell’indagine e quali i suoi limiti?
Dal punto di vista storico, perché l’indagine non venisse bloccata sul nascere fu senz’altro decisiva la caduta del Muro di Berlino, perché di fatto segnò anche in Italia la fine del sistema dei blocchi di potere contrapposti. Infatti Mani Pulite poteva scoppiare dieci anni prima, se solo fossero rimaste a Milano le indagini sulla P2 o sui fondi neri dell’Iri, dei quali nessuno più si ricorda. Invece finì tutto a Roma e le relative inchieste evaporarono. Mani Pulite nacque da un episodio solo, quello di un imprenditore che andò dai carabinieri a denunciare un fatto di corruzione. Fu insomma la prima volta che si potè investigare sui reati delle persone che rivestivano posizioni di potere.

E sulla rivoluzione dei giudici?
Non abbiamo mai pensato di farne e non ne abbiamo mai fatte. Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone. È quello che prima come giudice, poi come sostituto procuratore e infine ancora come giudice, ho cercato di fare e penso di aver fatto nel mio percorso dentro la magistratura.

Quale fu il vostro rapporto con l’opinione pubblica all’epoca? E con i media? Le strumentalizzazioni legate alle vostre indagini non sono mancate...
Ci sono stati momenti diversi. Sono dell’idea che non sia corrispondente ai valori della nostra Costituzione sbattere il mostro in pagina.

Quali sono i livelli di corruzione presenti oggi nel nostro Paese?
Oggi non esiste più un sistema della corruzione, come invece esisteva allora, intimamente connesso al finanziamento illecito, occulto, dei partiti, che mi pare essere, con quelle modalità, quasi scomparso. A mio parere è diffusa più o meno come un tempo la corruzione non sistematica, quella un po’ anarchica che coinvolge anche cittadini comuni.

È una responsabilità legata ai limiti dell’azione penale in sè o c’è dell’altro?
Io credo che il sistema penale non serva, eventualmente, che ad ottenere obbedienza, mentre la democrazia richiede consapevolezza. Peraltro quando la trasgressione è così sistematica come lo fu ai tempi di Mani Pulite, il sistema penale non è idoneo a marginalizzarla. Occorrerebbe invece lavorare molto sull’educazione, sulla cultura, accompagnare le persone ad osservare le regole perché le condividono, non perché hanno paura della sanzione.

I 15 anni fuori dalla magistratura cosa le hanno dato?
Dopo la mia uscita dalla magistratura ho intrapreso un’attività, soprattutto nelle scuole ma non solo, per aiutare a capire le regole ed arrivare a condividerle, a partire dalla Costituzione. I ragazzi che incontro sono molto disponibili al dialogo e al coinvolgimento, si lavora bene con loro se oltre che a parlare li si ascolta.

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