martedì 23 dicembre 2014
Nella struttura gestita da Fondazione Arché una decina di madri inizia una nuova vita, imparando l’amore verso i propri piccoli. Oltre 150 le “coppie” salvate.
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La lotta tra dinosauri è di quelle che tolgono il fiato: sul tavolo Ahmed guida i passi del triceratopo contro il velociraptor mentre Reda, sua mamma, serve la parmigiana per tutti. C’è frastuono di cucina, i bimbi grandi che tornano da scuola, il piccolo Eduardo che scorrazza sotto i tavoli, Greta che racconta la sua mattinata alla ricerca di lavoro, Sonia che sbaglia i tempi del caffè. Pranzo a "Casa Accoglienza" di Arché, nel cuore di Milano. Coi dinosauri, qui, abitano le donne che da sole non ce la fanno, a fare le mamme. La porta è aperta a loro e ai bambini che hanno messo al mondo, non importa se da un’ora o da dodici anni. E per queste famiglie a metà, in cui quasi sempre il padre non esiste (ignoto, arrestato, violento, partito e mai ritornato), la vita comincia per la prima volta qui.Cosa serve, per “salvare” una mamma, non lo sa nessuno. Nemmeno tra i volontari che ogni giorno seguono la comunità, oggi formata da 8 madri e 11 piccoli. Lino Latella, il responsabile della casa, ha una riposta per tutto «ma per questo magari ce ne fosse una...». La verità è che per chi arriva (le “coppie” si fermano ogni anno o due, dal 1997 ne sono passate oltre 150: 142 mamme e 162 figli) «viene creato un progetto educativo su misura, concordato coi servizi sociali, che tiene presente di tutto quello che è accaduto prima, delle sofferenze, dell’eventuale tossicodipendenza, degli abusi subiti». Ancora non basta però, perché una mamma e un bambino vanno osservati, seguiti, ascoltati per capire da dove cominciare. «E mai giudicati». Difficilissimo, quando alla porta arriva una ragazza di nemmeno vent’anni, tra le mani una bimba di 10 giorni portata come una borsa della spesa, sulla bocca frasi senza senso. Serena – il nome è inventato, la donna esiste e s’è presentata alla casa di accoglienza appena un paio di settimane fa – ha cenato, dormito. Poi, la mattina, s’è alzata, ha salutato tutti e se n’è andata via lasciando lì la sua bambina.Orrore? Tragedia? Macché. «Quale gioia più grande di sapere che quella mamma, pur nella sua follia, non l’ha uccisa, non l’ha gettata in un cassonetto? Quella piccola è un dono straordinario». La ricetta di padre Giuseppe Bettoni, presidente della Fondazione Arché onlus, è disarmante. Il sacerdote sorride – in braccio ha Eduardo, tutto gongolante per aver conquistato il “papà” di casa– e racconta la storia come un piccolo miracolo di Natale: «Non abbiamo fatto tempo a renderci conto di quello che succedeva, che ecco, sono arrivate le altre mamme pronte a scatenare una gara di solidarietà commovente: "Padre, teniamola qui, la cresciamo noi!"». Per la piccolina alla fine è arrivata una famiglia affidataria. Reda, Sonia e le altre hanno dovuto rassegnarsi. «Ma, credo, abbiamo un po’ tutti capito cosa vuol dire Natale – continua padre Giuseppe –. Ogni volta che nasce una vita è Natale».Alla casa di Milano il “miracolo” non tocca solo ai bebè. Reda è nata quando ha deciso di scappare dall’Algeria coi suoi tre bambini, a casa un marito violento che picchiava lei e picchiava anche più forte i suoi piccoli: Ahmed è il più grande dei tre, una passione sconfinata per la preistoria, un’altra per il suo Paese lontano «che è un paradiso sai? E vuoi sentire come si dice cane nella mia lingua? Mamma me la insegna quando torna dal lavoro...». Anche lui è nato di nuovo, qui: con le sue mille storie da raccontare, i libri e i sogni, la scuola. Greta invece è nata il giorno che ha capito di dover scegliere tra la siringa e Giulia, 4 anni: dopo la disintossicazione non sapeva nemmeno come guardarla negli occhi. Adesso sta sveglia di notte per preparare torte e sughetti, l’aspetta sulla porta e dopo pranzo l’aiuta a fare i compiti: sogna un appartamento tutto per loro, forse quando troverà un lavoro potrà rimettersi in piedi da sola. La piccola, una cascata di capelli biondi, le stringe forte la mano, tutta felice: «Mamma, vieni?». Poi ci sono Naira, Anita, Rossella: «Mi piace chiamarle Veroniche, e oltre a quella del Vangelo oggi c’è un’altra Veronica che somiglia loro, chiusa nel carcere di Catania: la mamma di Loris – spiega padre Giuseppe –. Nessuno sembra rendersi conto del dolore di essere donne, mogli, madri troppo fragili di fronte alle responsabilità della vita. C’è una sofferenza tutta femminile che va intercettata, aiutata, accolta e qui alla casa Arché noi cerchiamo di fare questo. Di arrivare prima che quella sofferenza faccia danni irreparabili».La casa di accoglienza è un via vai di attività dalla mattina alla sera: sulla bacheca, che domina la sala da pranzo, ci sono i turni per tutto (cucina, lavatrice, spazzatura, bagni). I bimbi più grandicelli come Michele, che di anni ne ha 12, partecipano entusiasti: servono da mangiare, sbucciano la frutta, sistemano Eduardo nel seggiolone. Le mamme li portano a scuola e poi si dedicano a ricostruirsi: c’è chi studia italiano, chi partecipa a corsi di informatica, chi lavora come segretaria, chi come cameriera. La sera, tutti insieme, ci si ritrova nella sala giochi al terzo piano: l’hanno dipinta e trasformata in una piccola Disneyland gli impiegati di una società di consulenza finanziaria che ha dedicato alla Fondazione Arché le sue ore di volontariato aziendale. «Noi viviamo dell’aiuto che riceviamo – spiega Lino –. Il Comune paga le rette per la permanenza di mamme e bambini, il resto lo fa la buona volontà di chi vive qui 24 ore al giorno e la solidarietà di chi sta fuori». Padre Giuseppe si occupa della parte spirituale, il difficile compito di mettere insieme 5 religioni diverse alla volta e la scoperta incredibile «che a volte basta mettersi attorno a un tavolo e leggere un pezzo di Vangelo per trovare valori condivisi». All’ingresso c’è un bel presepe, che non da fastidio a nessuno, sistemato accanto l’albero: «Natale qui è la festa dei bambini, sono loro al centro di questo momento di gioia». E della nuova vita di queste mamme.
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