venerdì 2 gennaio 2015
Prima la disperazione, poi il riscatto. La storia di Raffaella: «Dall’incubo delle slot mi ha salvato l’amore per mio figlio».
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​«A casa ero sola, al bar invece avevo la macchinetta. Era diventata la mia migliore amica, se avessi potuto me la sarei portata in salotto». Raffaella, 45 anni, bergamasca, ha provato sulla sua pelle cosa significa ammalarsi di azzardo. Ha iniziato per caso ed è finita schiava del suo vizio. Un anno e mezzo all’inferno, da cui è uscita aggrappandosi all’amore per il figlio. Una volta fuori dal tunnel, ha fondato un gruppo di mutuo aiuto per donne affette da azzardopatia. «Tutto è iniziato nel 2004, con la separazione da mio marito – ricorda –. Dopo 14 anni di matrimonio e con un figlio di 13 anni la mia stabilità era andata in pezzi. Per tre anni ho vissuto fra casa e il mio lavoro di cuoca, senza amicizie né distrazioni. Finché mi sono chiesta che senso avesse andare avanti così». La risposta arriva in fretta, ma Raffaella si accorge troppo tardi che è quella sbagliata. «Un giorno incontro tre mie vecchie amiche in un bar. Dopo il caffè si alzano e si avvicinano alle slot machine. L’inizio della fine». Raffaella non ha mai giocato. «Prova anche tu», le dicono. Lei tira fuori quattro euro: «Fai tu per me, perché non sono capace». La slot singhiozza un po’, poi sputa 900 euro. «Ero pazza di gioia. Sono fortunata, ho pensato. E il giorno dopo sono tornata. Non immaginavo che sarebbe diventata una routine alienante. Uscivo dal lavoro e in automatico la macchina mi portava verso il bar».Ogni pomeriggio Raffaella trascorre nel locale due ore filate con gli occhi fissi sullo schermo, «come ipnotizzata da quelle luci e da quei suoni». Inizia a rincasare in ritardo, racconta bugie a suo figlio. «Perché arrivi adesso? Mi chiedeva. E io: perché c’era tanta gente a pranzo. Mentivo prima di tutto a me stessa». Raffaella gioca, ma capisce di non essere poi così fortunata. Ogni tanto vince, soprattutto perde. E per recuperare il denaro svanito non ha scelta: puntare ancora, puntare sempre di più. «Al bar le ore volavano, mi sentivo bene. Ma presto sono iniziati i problemi: sperperavo quasi tutto lo stipendio e mi giocavo anche parte degli alimenti pagati dal mio ex marito». Una spirale che le si avvita intorno e che la trascina sempre più giù. «Mio figlio è stato la mia salvezza. Quando mi ha scoperto voleva andarsene di casa, a quel punto ho capito che dovevo fare qualcosa. Non volevo fallire anche come mamma».La svolta arriva quando Raffaella entra in uno dei primi gruppi di giocatori anonimi della bergamasca. Non è ancora il 2010 ma la febbre dell’azzardo si è già diffusa come un contagio. «Ho trovato amici veri, capaci soprattutto di ascoltare. Ma il primo passo è stato ammettere di avere un problema». La terapia consiste nel parlare e nel raccontarsi la fatica di resistere alla tentazione. «Ti alzi al mattino e ti metti in testa che non devi giocare. Alla sera vai all’incontro e dici agli altri: oggi non ho giocato. Si va avanti così, di 24 ore in 24 ore». Pochi mesi fa Raffaella ha festeggiato i tre anni senza azzardo. «Per me è come un compleanno: mio figlio si è presentato con un regalo. Ma so che non posso più toccare nemmeno un euro».Ora Raffaella ha fondato un suo gruppo di mutuo aiuto perché, dice, «la situazione si sta aggravando. Abbiamo iniziato in tre, ora siamo in dodici. L’azzardo rovina anche tante coppie: uno dei due gioca e svuota il conto corrente, l’altro non perdona e se ne va. Con le videolotterie è anche peggio: puoi introdurre anche banconote da 500 euro. Che si bruciano in mezz’ora». Nel gruppo ci sono anche le sue vecchie amiche: «Ora i nostri pomeriggi sono diversi» sorride Raffaella.
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