mercoledì 30 dicembre 2009
Pietre, tegole, ferro, termosifoni, frigoriferi, plastica: in questi mesi spostare il materiale inerte si sta rivelando un’operazione complicata ma redditizia. Molti gli interessi che si sono mobilitati per lo smaltimento, mentre si cercano nuovi depositi in grado di contenere ciò che è stato abbandonato dopo il crollo.
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Da sempre lo sguardo degli abruzzesi ama riposarsi sulle dolomie del Corno Grande, che dal Miocene rivaleggiano con le marne lasciate lì dall’Adriatico. I calcari del Gran Sasso, poi, quelli sono ovunque: conci bianchi e rosa decorano da secoli le facciate di chiese e palazzi spezzati dal terremoto, e la stessa pietra chiara con cui è costruita la fontana delle 99 cannelle dava forma agli antichi castelli. Quanto possano costare i sassi che adesso ostruiscono i vicoli del centro storico, le schegge dei marmi, le lesene spezzate, il pietrame che cola dai muri feriti, gli aquilani lo sanno dal 1532: con la scusa di punire una rivolta, il viceré di Napoli pretese da loro centomila ducati all’anno, tanti gliene servivano per edificare il forte spagnolo.Se la storia dell’Aquila è scritta nella pietra, il suo futuro è liberarsene. La rimozione delle macerie dalle vie della città costituisce il presupposto di ogni progetto di ricostruzione. Ed è il business del momento. Lo sa bene Alfredo Moroni, assessore all’ambiente del Comune. Prima del 6 aprile, il suo problema era quello di spedire i rifiuti della città il più lontano possibile. Non erano molti e comunque, per uno dei soliti paradossi della politica, l’Aquila, che è circondata dalle cave, non possedeva una discarica. Ora Moroni sta cercando disperatamente dei depositi temporanei dove dividere pietre da tegole, ferro da plastica, termosifoni da frigoriferi, insomma tutto quel che è venuto giù insieme alle case. Il problema, ovviamente, non riguarda solo l’Aquila: la legge 77 impegna anche gli altri 56 comuni a smaltire analogamente i propri detriti. Facendo grande attenzione a distinguere tutte quelle pietre che sassi non sono: il rischio che finiscano nei frantoi anche antichi stucchi e preziose terracotte è talmente alto che il Consiglio superiore dei beni culturali ha sentito il bisogno di raccomandare per iscritto «l’asporto controllato delle macerie e il vaglio dei reperti inglobati nei crolli, ricordando che essi col maltempo si compattano». La selezione prima dello smaltimento è imprescindibile perché la legge, in virtù della quale il Comune ne ha acquisito la proprietà e può rimuoverle, prevede che le pietre siano «rifiuti solidi urbani» e che debbano seguire il medesimo percorso che viene utilizzato abitualmente per il ciclo integrato dei rifiuti. E qui ci imbattiamo nel secondo paradosso: ci sono macerie e macerie. Quelle del palazzo crollato o demolito dal Comune devono attendere che si trovi un «deposito» dove «lavorarle», mentre quelle prodotte dalle attività di ristrutturazione, magari effettuate nel palazzo di fianco, rientrano tra i rifiuti speciali e possono essere smaltite tranquillamente. Certo, si deve trovare una discarica a norma e pagare il servizio, ma si tratta pur sempre di costi che lo Stato rimborserà ai proprietari di immobili terremotati e ciò dovrebbe contenere il fenomeno dello smaltimento abusivo. In realtà non è sempre così: «Troviamo ancora molte macerie abbandonate, ma sono quelle dei privati che ristrutturano la casa da soli e per i quali abbiamo creato dei punti di conferimento gratuito» annuncia l’assessore, che scommette sull’efficacia dell’operazione e persino sulla sua economicità. «Oltre ad avere un valore ambientale – ci dice – il nostro sforzo va nella direzione del riuso: la normativa prevede che il 30% delle costruzioni sia realizzato con inerti di recupero». In pratica, dopo aver diviso pietre da laterizi, ferro e plastica, dovrebbe essere possibile collocare con profitto questa singolare «produzione». È a questo punto che interviene il terzo paradosso: il terremoto è capitato in una delle regioni italiane in cui il materiale da costruzione costa di meno. L’Abruzzo è ricco di cave. Quelle dell’Aquilano, poi, sono per il 70% ex usi civici e i comuni impongono ai cavatori canoni irrisori per estrarre il carbonato di calcio, la pietra chiara con cui si costruisce di tutto. I blocchi crollati dai palazzi dell’Aquila venivano da Poggio Picenze e da Ocre, da Pizzoli e da Montereale. La pietra aquilana, del resto, è rinomata da secoli: il Palazzaccio di Roma deve tutto alle cave di San Pio delle Camere. Ebbene, trovarsi in poche ore con cinque milioni di metri cubi, tante sarebbero le macerie da trattare, non è esattamente una fortuna: «non abbiamo alternative» obietta Moroni, escludendo «il ritombamento delle macerie in modo indiscriminato in cave dismesse». Il riferimento non è casuale: dopo secoli di estrazioni, l’Aquila è una groviera. Resta dunque l’opzione profit oriented anche se il margine di profitto non è chiaro. Un blocco di marmo antico, naturalmente, può essere venduto al 300% del prezzo della pietra vergine, perché la storia è un valore aggiunto, e anche il recupero dei metalli può essere remunerativo, anche se bisogna ricordare che in molte case dell’Aquila si trova ancora il costoso eternit… Il punto debole dell’operazione è comunque la competitività di un metro cubo di pietra vergine: esce dalla cava aquilana intorno agli 8 euro contro i tradizionali 12 e quindi per avere un mercato, calcolando i costi del trattamento, le macerie riciclate non dovranno superare i 2. La stima è dell’Associazione regionale cavatori abruzzesi, che in questa partita rivestono il duplice ruolo di concorrenti nella produzione di inerti e di fornitori del servizio di lavorazione. «Malgrado le leggi, solo il 10% delle estrazioni torna sul mercato come materiale di riutilizzo» commenta il loro presidente, Francesco Giannini.Purezza, resistenza, costi, come ci sono macerie e macerie, c’è impianto e impianto; fino ad oggi, l’emergenza è stata gestita riempiendo un deposito di Bazzano, al ritmo di 600 tonnellate al giorno. Ieri il tavolo ambientale ha deciso di raddoppiare l’impianto, portandolo a una capacità di trattamento di 1,5 milioni di metri cubi annui. Si sarebbe voluto fare di più, ma cinque dei nove siti individuati per creare la rete dei depositi temporanei sono stati sequestrati dai Carabinieri nelle scorse ore a Pizzoli. Da anni venivano usati per smaltire abusivamente i rifiuti e non se ne era accorto nessuno. Saranno pure pietre ma risvegliano interessi enormi. Pare infatti che la rimozione delle macerie di questo terremoto costerà più di 50 milioni di euro. Quanto ai tempi necessari, basti sapere che Marche ed Umbria, dove il sisma aveva prodotto meno danni e che optarono per smaltire le macerie in discarica, impiegarono più di dieci anni per risolvere il problema.
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