venerdì 6 febbraio 2009
Parla l’oncologa Sylvie Menard. Nel 2004 le viene diagnosticato un tumore e dopo tante sofferenze cambia le sue convinzioni sulla vita e la sua fine: «Il mio testamento biologico? L’ho strappato. Voglio vivere fino all’ultimo». «Degli stati vegetativi la scienza medica sa ancora troppo poco E c’è in giro troppa disinformazione»
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Le prospettive cambiano quando la morte ti guarda negli occhi. Quando la diagnosi di una malattia dalla quale non si può gua­rire viene scritta sotto il tuo nome. Allora non pensi più all’eutanasia, ad abbreviare la tua vi­ta prima del tempo. Tutto si ribalta, valori e con­vinzioni. Anche se prima, quando avevi il do­no della salute, credevi che fosse un diritto e u­na tua libertà avere una morte degna che ab­breviasse le sofferenze. Dopo, invece, vuoi vi­verla fino alla fine, la tua esistenza. Vuoi ag­grapparti a ogni minuto e alla speranza molto umana che alla fine salti fuori una cura mira­colosa. Sylvie Menard, 61 anni, parigina e laureata alla Sorbona, è una ricercatrice oncologica che da 40 anni lavora in Italia per trovare cure anti­cancro. In una delle eccellenze scientifiche ita­liane, l’Istituto dei tumori di Milano, è stata al­lieva di Umberto Veronesi ed è stata direttrice del Dipartimento di oncologia sperimentale. Oggi è in pensione, ma collabora sempre con l’ospedale. Il 26 aprile del 2004, a seguito di un malore, le venne diagnosticato un tumore al midollo osseo da cui non si guarisce. Cosa è cambiato da quel giorno, dottoressa Me­nard? Tutto. Mi sono guardata allo specchio e mi so­no detta che non era vero, era un errore. Dopo tante sofferenze, ho cambiato le mie convin­zioni sulla vita e sulla sua fine. In che senso? Sono sempre stata a favore del testamento bio­logico e dell’eutanasia. Ne avevo scritto uno pri­vatro, ma l’ho strappato perché non voglio che ne venga fatto un uso improprio. Non voglio morire, voglio vivere fino all’ultimo. E credo che la scienza debba aiutare a curarmi. Anche se la sua vita di malata non fosse degna? Per me è sbagliato parlare di vita indegna e di morte dignitosa. Sono concetti elaborati dai sa­ni. I malati non la pensano così e andrebbero a mio avviso coinvolti e ascoltati qualora si volesse discutere una legge sul testamento biologico. La vita è sempre degna. La verità che si vuole co­prire è un’altra: in Italia i malati terminali e le loro famiglie sono troppo spesso lasciati soli e siamo indietro nelle terapie antidolore. Certo, se a una persona sana prospetti una fine sof­ferta, un’agonia dolorosa, affermerà che prefe­risce l’eutanasia. Ma in un paese davvero civi­le esistono alternative. Se una persona è de­pressa e vuole suicidarsi, non mi pare etico dar­le una mano e spingerla giù da un parapetto. Qualcuno potrebbe obiettare che va evitato l’accanimento terapeutico... Mi sono convinta in 40 anni di lavoro e ascol­tando le esperienze in corsia dei colleghi che in realtà non esiste accanimento. Anche questo è un problema posto dai sani. Sono le famiglie e i malati terminali a chiedere di non sospende­re le terapie, a sperare che la prossima cura sia quella giusta. Nessuno accetta di sentirsi dire che non c’è più nulla da fare. Solitudine delle famiglie dei pazienti e arre­tratezza della ricerca. Con le differenze del ca­so, non è la situazione degli stati vegetativi? Sicuramente. Non sono una specialista, ma so­no una ricercatrice e mi fido solo dei dati. An­zitutto, degli stati vegetativi la scienza medica sa ancora troppo po­co. Poco o nulla è di­mostrato perché non è un settore che ab­bia interessato molto questa sanità sempre alla ricerca di fondi. Di conseguenza c’è molta disinformazio­ne. Basta leggere quello che pubblica­no molti giornali sul­la vicenda di Eluana. In alcuni si parla a sproposito di questi malati, definendoli ad e­sempio 'comi vegetativi' che non esistono. E­luana, poi, vive senza macchinari e non è ter­minale. Poiché la scienza non conosce il suo stato di coscienza, mi domando perché ucci­dere questa donna sia diventata la prova che l’Italia è un paese civile. Se vi sono dubbi sulla sua vita, non si risolvono ammazzandola. Come valuta la vicenda? C’è un padre che si è trovato solo ed è stato con­vinto da alcuni medici che sua figlia deve mo­rire perché quella che sta conducendo non è vita. Eppure il cuore di Eluana batte e lei respi­ra. Come fa uno scienziato, un medico, ad af­fermare che non è viva? E che non soffrirà se le verrà sospesa l’alimentazione? Le suore Mise­ricordine di Lecco che hanno assistito Elua­na per anni, pur sen­za una laurea in me­dicina, non hanno dubbi sul fatto che sia viva. Altro paradosso, qualche tempo fa si e­ra letto che la donna aveva avuto gravi pro­blemi rischiando di morire. Allora perché l’hanno fatta curare? Il professor Defanti ha definito la sospensione dell’alimentazione una morte dolcissima. È l’uomo che ritiene di cominciare da oggi a di­mezzarle l’alimentazione, atto ancor più cru­dele. Mi chiedo cosa ne sappia, certo non ha mai parlato con uno di questi pazienti. Se si sbaglia e queste persone provano sensazioni, immagi­nate cosa patirà E­luana quando le to­glieranno il sondino per l’alimentazione e morirà di fame e sete in 15 giorni. Eluana avrebbe det­to a famigliari ed amiche di preferire la morte allo stato vegetativo. Può darsi. Ma chi ha la certezza che anche se in stato vegetativo, oggi non abbia cambiato idea e preferisca vivere? La scienza non ci offre si­curezze. Cosa rischia l’Italia con questa vicenda? Se la sentenza viene eseguita, si rischia di apri­re una porticina verso la morte in cui possono scivolare prima di tutto le 2500 persone in sta­to vegetativo in Italia. Senza contare i malati di Alzheimer e le demenze senili. Vi saranno infatti medici e famigliari che si chiederanno perché loro devono continuare a vivere se Eluana è morta. Qualcuno potrebbe anche farsi venire la tentazione di far pulizia delle persone che non sono sa­ne e perfette. Neonati compresi. Una vera e propria deriva di morte a suo giudizio, insomma. Si, senza contare il messaggio culturale falso e offensivo verso i malati in stato vege­tativo e le loro fami­glie che soffrono e fanno dei sacrifici e­normi per amore dei loro cari. In pratica si dice loro che è tutto inutile, che i loro congiun­ti stanno vivendo una vita indegna. Questa cul­tura mi fa paura perché rifiuta chi è diverso, il malato e assegna ai sani il diritto di decidere chi può vivere. Dottoressa Menard, lei crede in Dio? No, ho avuto un’educazione cattolica, ma non sono riuscita a conciliare fede e scienza. Da quando ho il tumore vorrei tanto credere in Dio, mi aiuterebbe. Dalla vicenda di Eluana sembra che siano solo i cattolici a difendere la vita. Che non credenti e laici siano per la morte. Invece non deve essere così, la vita è un diritto che va difeso da tutti.
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