martedì 21 aprile 2009
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La diplomazia e la moral suasion esercitate dall’Europa non ba­stano più. «Ci sarà un motivo per cui, da parte della Commissione Ue, nessuno invoca una normativa comunitaria in grado di regolare la delicata materia degli sbarchi...» os­serva subito Bruno Nascimbene, professore di Diritto dell’Unione eu­ropea e Diritto degli stranieri alla Sta­tale di Milano. «...Il motivo è che sem­plicemente non esiste alcuno stru­mento comunitario. Né mai è esisti­to». Il contenzioso tra Italia e Malta andrà probabilmente oltre la fine della vicenda della nave Pinar, sbar­cata ieri a Porto Empedocle. Se la sor­te di chi era a bordo del mercantile è stata infatti affidata ai volontari del­le Ong e alle forze dell’ordine, la ri­costruzione di quel che è successo e delle responsabilità per l’accaduto è appena cominciata. «In assenza del diritto comunitario, la materia è re­golata dai trattati internazionali» pre­mette Nascimbene. Da quali accordi in particolare? La Convenzione Sar del 1979 impo­ne un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare sen­za distinguere nazionalità o stato giu­ridico delle persone coinvolte, stabi­lendo oltre all’obbligo della prima assistenza, anche il dovere di far sbarcare i naufraghi in un luogo si­curo. Quanto pesano invece gli accordi bi­laterali? Sono facilmente aggirabili, come ha dimostrato in questi anni la Libia nei nostri confronti. Le convenzioni multilaterali marittime sono più precise e il governo si è comportato cor­rettamente nel richiamare La Vallet­ta alle proprie responsabilità. Il commissario Ue alla Giustizia Jac­ques Barrot ha spiegato il compor­tamento di Malta sostenendo che ha 400mila abitanti e un territorio li­mitato rispetto alla domanda di ac­coglienza dei 154 immigrati a bor­do della Pinar. In realtà Malta va considerato come un «porto sicuro». Non è la Libia o la Tunisia, Stati in cui la sicurezza del­le persone in arrivo potrebbe essere a rischio. Peraltro questa nave, al­meno prima dell’intervento del mer­cantile Pinar, era localizzata in acque maltesi. Anche il fatto che, in quan­to isola, Malta non possa accogliere nessuno, regge fino a un certo pun­to. Pure Lampedusa è un’isola, cio­nonostante gli sbarchi da noi conti­nuano. Cosa può fare concretamente l’Eu­ropa? L’Unione europea ha gli strumenti per monitorare i flussi di ingresso de­gli irregolari, ma non per interveni­re dal punto di vista operativo. Esi­ste un’agenzia di con­trollo delle frontiere, il Frontex, ma fa un lavoro più o meno analogo a quello che da noi svolge la guardia costiera. Serve una disciplina che possa costringere i governi a farsi carico di queste e­mergenze, con la possibilità per le i­stituzioni comunitarie di aprire del­le controversie e di minacciare delle sanzioni contro chi è inadempiente. A quel punto, il diritto comunitario recepirebbe le norme stabilite nei trattati internazionali e una viola­zione dei patti potrebbe finire da­vanti alla Corte di giustizia europea. Sul campo, invece, cosa cambiereb­be? Sarebbe necessario creare forze con­giunte di soccorso da parte dell’Ue, con il consenso di tutti gli Stati, ma al momento non c’è nessuna di­scussione concreta su questo. Le re­gole europee sarebbero più strin­genti di quelle internazionali, ma te­mo che con l’approssimarsi delle scadenze elettorali per l’Europarla­mento i tempi per eventuali inter­venti normativi sulla materia si al­lungheranno fino alla fine dell’anno. Sul piano dei diritti umani, come contemperare il bisogno di solida­rietà con la domanda di sicurezza? In caso di guerra, prevale senza dub­bio il principio di solidarietà per chi arriva da zone di conflitto. In un ca­so come quello della Pinar, poi, in gioco c’era anche la tutela delle per­sone a bordo, dagli immigrati all’e­quipaggio, per non parlare delle don­ne incinte. Il diritto umanitario non fa sconti a nessuno e chiede garan­zie per tutti, anche in situazioni e­streme.
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