
Il Tempio di Venere a Roma con il tricolore illuminato nel Giorno del Ricordo - ANSA
«In quella zona a Oriente così peculiare si erano incontrate, convivendo, comunità italiane, slave, tedesche e di tante altre provenienze...». È forse questo il passaggio più pregnante del discorso tenuto ieri dal presidente Mattarella nel Giorno del Ricordo al Quirinale: ci fu un’epoca in cui l’Istria, Fiume e la Dalmazia, proprio grazie alla fusione tra le diverse culture ed etnie che le abitavano, furono terra di altissima civiltà e pace tra i popoli.
Una sorta di età dell’oro, eppure non lontana dal nostro tempo, infranta all’improvviso dall’insorgere dei nazionalismi prima, e poi «dal virus micidiale delle ideologie totalitarie». Ancora oggi nei cognomi “strani” di istriani, dalmati e fiumani resta impressa la ricchezza multiculturale del loro passato, ma il cancro del razzismo seppe incrinare quell’armonia e diede il via al caos, che in due guerre mondiali trovò il suo inferno naturale. Un’unica colpa, dunque, ma tanti colpevoli: dall’impero Austro-Ungarico, per primo ostile alla componente italiana a favore di quella croata, al nazifascismo, dichiaratamente feroce contro le minoranze slave, al comunismo di Tito, che «contro gli italiani residenti in quelle zone inaugurò una spietata stagione di violenza – ha ricordato Mattarella – contrassegnata da una lunga teoria di uccisioni, arresti, torture, saccheggi, sparizioni, di cui le Foibe restano il simbolo più tetro». Se nel resto d’Italia la Liberazione arrivò con gli Alleati e il popolo in festa, nelle nostre regioni adriatiche – e solo qui – i “liberatori” iniziarono la mattanza: la guerra qui non finiva, riprendeva più feroce di prima.
Eppure, ci ha detto Mattarella tenendo dritta la barra del timone sul futuro, ci fu un tempo in cui le genti più martoriate d’Italia furono faro ed esempio per tutti, e ancora oggi sanno esserlo. Lo dimostra l’intervento di Egea Haffner (la “Bambina con la valigia” chiamata ieri a testimoniare, istriana, cognome ungherese, padre inghiottito da una Foiba in quanto italiano...), che non parla di odio ma di riconciliazione (e di memoria).
Lo dimostra ancor più il vento di speranza che giunge da Gorizia, due giorni fa divenuta Capitale europea della Cultura 2025 insieme a Nova Gorica, la sua “altra metà” slovena: in quella stessa piazza che fino al 2004 era divisa da un Muro come a Berlino (di qua l’Occidente, di là il blocco comunista, ma quanti italiani lo sanno?), oggi si festeggia la prima “Capitale europea transfrontaliera”. È un progetto che affonda le sue radici nella millenaria vocazione di Gorizia, crocevia tra mondo latino, tedesco e slavo, dove le famiglie parlavano indifferentemente tedesco, italiano, friulano, sloveno, e i suoi cittadini erano (sono) veneti, sloveni, friulani, cechi, ungheresi, ebrei, slovacchi... Non a caso il presidente Mattarella l’8 febbraio scorso, inaugurando insieme alla presidente slovena la prima Capitale transfrontaliera, ha indicato a un’Europa di nuovo in guerra proprio lo «spirito di Gorizia»: «Nova Gorica e Gorizia indicano la strada di un autentico progresso», ha detto, perché «ambiscono a celebrare la cultura dei confini». Riuscire ad opporre un progetto di speranza ad un mondo di ombre com’è il nostro è puro eroismo.
Sa bene, il presidente, che quella strada è irta di ostacoli e non ha fatto sconti ieri, al Quirinale, denunciando le «squallide provocazioni» (chiaro il riferimento alla Foiba di Basovizza imbrattata proprio l’8 febbraio e ancor più alla scritta monumentale “TITO” che incombe su Gorizia dal versante sloveno del Monte Sabotino, a ricordare i 42 giorni di occupazione jugoslava durante i quali furono trucidati centinaia di innocenti goriziani. Come se dal versante italiano qualche squilibrato scrivesse “DUCE” a sfregio delle vittime del fascismo). «La memoria dev’essere preservata e onorata, ma perderebbe il suo valore autentico se fosse asservita alla ripresa di divisioni e rancori», ammonisce allora Mattarella. Divisioni e rancori che sono proprio il sogno malato di chi quelle scritte le ha tracciate. Ma un sogno perdente: là sotto, la piazza festeggia la pace.