venerdì 13 novembre 2009
Il Senato ha approvato ieri con un voto bipartisan il disegno di legge che istituisce la «Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali di pace». La ricorrenza sarà il 12 novembre, giorno della strage di Nasiriyah.
In quelle vite date si specchia il meglio di noi di F. Ognibene
COMMENTA E CONDIVIDI
C’erano anche loro ieri nell’Aula, emozionati e silenziosi, mentre il Senato approvava all’unanimità il disegno di legge che istituisce la «Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali di Pace»: un evento accolto dai parenti delle vittime con un applauso subito ricambiato da un più forte applauso di tutti i senatori, da destra a sinistra, insolitamente unanimi grazie a quella parola, «pace». Un applauso rivolto proprio alle tribune, verso madri e padri anziani, moglie e bambini rimasti soli. Il primo via libera era già arrivato dalla Camera il 27 ottobre. Ieri il sì definitivo, non a caso giunto proprio il 12 novembre, giorno dell’anniversario della strage di Nasiriyah. L’iniziativa ha preso spunto da due proposte di legge presentate dai deputati Isabella Bartolini e Filippo Ascierto, e dal disegno di legge proposto dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa (licenziato dal consiglio dei ministri già il 9 ottobre scorso). «Sono loro i veri martiri, nel senso più alto, quello della testimonianza», ha sottolineato il relatore, Carlo Vizzini (Pdl). «Sulla missione in Iraq non c’era unanimità - ha ricordato Roberta Pinotti (Pd) - ma i nostri militari compirono un’opera di ricostruzione, e non ci sono diversità di giudizio di fronte a questa consapevolezza». Per la prima volta il 12 novembre, il giorno fino a ieri di Nasiriyah, ha raccolto ai piedi dell’Altare della Patria e in Santa Maria degli Angeli centinaia di parenti dei 145 caduti in Libano, nei Balcani, in Afghanistan, Iraq, Somalia, Congo, Albania, Kosovo... Commossi e determinati: «Ci saremmo tutti gli anni».  Dimenticati, almeno fino a ieri. «L’istituzione di questa Giornata ci fa dire che nostro padre dopo 57 anni è ancora capace di farci sentire importanti». Tanti ne sono passati da quando, nell’agosto del 1952, il maresciallo maggiore dei Carabinieri Flavio Salacone, all’età di 48 anni, fu trucidato durante una sommossa scoppiata in Somalia e il suo corpo fu martoriato. Ieri all’Altare della Patria e alla Messa di Santa Maria degli Angeli c’erano anche due dei suoi figli, Mario e Luciana. «Un’emozione forte, che nostra madre, morta a 92 anni, pochi mesi fa, purtroppo non ha fatto in tempo a provare». Solo quel giorno i figli tra le sue cose hanno scoperto che per tutta la vita aveva conservato la camicia del marito, ancora lacerata dalle numerose pugnalate che gliel’avevano portato via.Flavio Salacone, al secondo posto in ordine cronologico nella lunga lista dei caduti nelle missioni all’estero, era partito volontario con il contingente Onu in Somalia, un’operazione durata dal 1950 al 1958 con il compito di porre le basi per costituire la nascente polizia somala. Si trattava di un mandato particolarmente importante per un’Italia che ancora non faceva parte delle Nazioni Unite e che si mise subito al lavoro per raggiungere l’obiettivo: condurre la Somalia entro dieci anni alla piena indipendenza favorendone lo sviluppo politico, economico e sociale. «Papà era arrivato da quattro mesi ed era il comandante della stazione di polizia somala - raccontano i figli, che oggi hanno 64 e 70 anni -, presto sarebbe andato in pensione e noi avremmo perso la residenza in caserma, così doveva mettere via qualche soldino per i suoi quattro bambini. Anche per questo partì, oltre che per passione...».Ma non fece in tempo, come non fece in tempo a portare in salvo alcuni dei suoi militari, italiani e somali: la folla in rivolta capovolse la loro camionetta e decine di uomini e donne armati di coltelli posero fine alla loro vita. In Italia sua moglie rimase sola con quei quattro figli da sfamare. «Allora le pensioni erano una miseria - raccontano oggi -, noi avevamo 2, 7, 12 e 13 anni e finimmo negli orfanotrofi dell’Arma», tranne la più grandicella, che a 13 anni poteva già lavorare. Poi la fatica di tirare avanti, la vita che riprende, ma anche l’oblio, fino a ieri, quando uno dei diciotto mazzi di fiori posti all’Altare della Patria, uno per missione di pace, era per Salacone e i suoi compagni.Uomo di pace era anche Giuseppe Cavagnero, il terzo della stessa lista di martiri, che «incurante del gravissimo rischio si lanciava in soccorso di un sottufficiale in procinto di essere travolto da forti ondate», si legge nell’antica onorificenza, medaglia d’argento al Valor civile, che gli fu conferita. Anche il maresciallo capo Cavagnero morì a 48 anni, anche lui in Somalia. Era il 1959. «Allora Mogadiscio era un giardino fiorito, tenuto dagli italiani», almeno nel ricordo di Anna e Giorgio, i suoi due figli, allora bambini di 6 e 8 anni. «Ci aveva portati a vivere laggiù, con la mamma, tutti nel campo militare italiano», raccontavano ieri, negli occhi ancora il dramma dei flutti che ingoiano il padre dopo che era riuscito a spingere sulla spiaggia chi stava affogando. «Era un  giorno di vacanza e andammo tutti al mare, sull’Oceano Indiano. Alcuni si avventurarono in acqua e si trovarono in difficoltà. Papà si gettò da solo in soccorso, senza dire nulla, e li salvò dal gorgo». Lo ritrovarono a sera. «Da questo 12 novembre finalmente non saremo più soli a ricordare il suo gesto umile, spontaneo, di coraggio».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: