sabato 29 agosto 2020
Un breve video ne mostra alcuni. Magrissimi e smarriti dopo la liberazione. Molti con problemi di salute. Ma per loro si sono subito riaperte le porte di un centro di detenzione governativo
Le voci disperate dai lager libici. Violenze di ogni tipo e ricatti
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Il breve filmato mostra facce scavate, corpi scheletrici seduti sui talloni perché non hanno la forza di reggersi in piedi dopo essere sopravvissuti a tre anni di torture a Bani Walid. Li hanno rilasciati da un lager, dove sono stati torturati e affamati da miliziani perché non fuggissero e, dopo che hanno pagato 15 mila dollari di riscatto, cacciati in un altro gestito sempre da miliziani, ma in divisa da poliziotti.

È una testimonianza dall’inferno, racconta la sorte che attende molti di quelli ripresi o salvati dal mare dalla cosiddetta guardia costiera libica. Vengono portati in un centro di detenzione governativo e tenuti in condizioni insopportabili e repressi selvaggiamente se si ribellano. Da lì, con la complicità di poliziotti al servizio dei trafficanti, chi non è registrato nelle liste dell’Unhcr viene spesso venduto e sparisce in un centro informale gestito da uno dei gruppi armati fedeli a Tripoli che hanno avviato da anni un florido mercato di esseri umani.

Il video è stato girato da Adam - chiamiamolo così per salvaguardarne l’identità perché è ancora in Libia - un africano occidentale che, dopo aver provato a raggiungere in mare l’Europa, è stato riportato in quello che qualcuno si ostina a ritenere "porto sicuro" e rinchiuso a Khoms, uno dei centri di detenzione governativo dove vengono imprigionate le persone salvate nel Mediterraneo. E dove sono arrivati anche alcuni reduci scheletrici di Bani Walid, la "fabbrica delle torture", rinchiusi di nuovo, senza pietà. Khoms fotografa su piccola scala la situazione attuale dei migranti detenuti in Libia nei centri statali e in quelli delle milizie.

Nel lager, 90 km a est di Tripoli, al momento sono chiusi 170 prigionieri, perlopiù eritrei, 100 dei quali registrati dall’Unchr e 70 provenienti dai salvataggi in mare. Adam vi è stato detenuto alcuni mesi e ha scritto anche un diario per non impazzire. Inizia così: "I prigionieri provano sempre a scappare, ma le guardie sparano per fermarli e quando li riprendono li picchiano con spranghe".

Ai primi di agosto è fuggito e ha consegnato via whatsapp il testo a Giulia Tranchina, avvocato italiano che si occupa a Londra di diritti umani. Abbiamo potuto visionare alcuni estratti del diario dove Adam racconta i continui tentativi di fuga e le proteste quotidiane nel centro per la mancanza di cibo e acqua, le condizioni igienico-sanitarie insopportabili nonostante la pandemia e le brutali violenze della polizia costituita da miliziani fedeli al governo tripolino.

Repressioni crudeli cui hanno assistito anche operatori di agenzie umanitarie senza poter intervenire. Il direttore del centro è Mustafa Gamra mentre da gennaio l’Unhcr, sostiene Adam, non visita la struttura. Entrano settimanalmente solo i medici di Msf e l’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni.

La sua testimonianza inizia il 19 luglio con l’arrivo di 100 persone. Adam scrive: "Chiedono cibo e la polizia li picchia con crudeltà. Tra loro ci sono 6 donne. Non c’è acqua e qui fa troppo caldo". Poi nei giorni successivi descrive un tentativo di fuga di massa di giovanissimi sudanesi intercettati in mare. "Ieri 74 prigionieri sono scappati. Ma le guardie li hanno inseguiti. Hanno sparato ammazzando tre minorenni e ferendone due. Ne hanno catturati 25 circa, tra cui 8 bambini. I più grandi sono stati massacrati nel cortile davanti a tutti, con le spranghe gli hanno spezzato gambe e mani". Il racconto è stato confermato da una denuncia di Medici senza frontiere ai primi di agosto.

Una sera di fine luglio varcano la soglia di Khoms altre 30 persone salvate in mare. "Alcuni sono feriti, l’Oim ne ha trasportati alcuni in ospedale. A quelli rimasti le guardie non hanno portato il cibo, mancano acqua e corrente". Poi un’altra rivolta domata nel sangue dopo l’arrivo di 55 uomini e 5 donne, due delle quali incinte, anche questi salvati da una barca alla deriva. "Picchiavano sulle porte per avere cibo e acqua. Le guardie hanno cominciato a tirare pietre, allora i detenuti hanno cercato di sfondare le porte con pali. La polizia prima ha minacciato le donne incinte, poi ha usato lacrimogeni e spranghe".

Ma lo choc più forte è provocato dall’arrivo di 34 detenuti scheletrici liberati da Bani Walid, ampio centro non ufficiale noto per le efferate torture inflitte ai detenuti divisi per nazionalità. Chi può lavorare diventa schiavo fino a pagarsi la libertà gli altri sono torturati fino a che la famiglia o gli amici non pagano il riscatto. Oppure fino alla morte.

«Secondo le testimonianze di molti detenuti – spiega Giulia Tranchina – alcuni poliziotti di Khoms cercano i migranti riportati dal mare non registrati dall’Unhcr e li rivendono ai trafficanti. E chi non ha i soldi per pagare il riscatto finisce a Bani Walid». Dove comanda il libico Abdallah e gli aguzzini sono l’egiziano Hamza e il somalo Hassen Gali.

"Sono scioccato - scrive descrivendo i sopravvissuti a quella che chiama "casa della morte" - sono magrissimi, in condizioni terribili. Mangiavano pochissimo, hanno raccontato di essere stati torturati, le donne venivano spogliate e stuprate davanti a tutti. Sono eritrei e somali, hanno pagato 15 mila dollari a testa per il riscatto dopo tre anni di torture. Mi hanno detto che hanno visto 72 persone morire in 2 mesi. Perché li hanno portati qui? Qualcuno è stato ricoverato in ospedale, ma gli altri non si reggono in piedi."

Adam evade ai primi di agosto. La sua voce dal nulla invoca pietà e rende urgente l’evacuazione umanitaria in Paesi europei e africani almeno dei circa 2.500 prigionieri dei centri di detenzione ufficiali.

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