martedì 3 marzo 2009
Il racconto delle religiose: abbiamo vissuto senza pensare a quel che sarebbe successo l’indomani. Grazie a chi ci ha sostenuto con la preghiera.
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Preghiera e abbandono alla Provvidenza hanno con­traddistinto i 102 gioni di prigionia in Somalia di Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero. Ora, al sicuro nella loro comunità a Cuneo, ricordano i giorni cari­chi di angoscia ed esprimono la gioia e lo stupore per la grande so­lidarietà che ha suscitato il se­questro. Quando avete capito chi erano i vostri rapitori? Non abbiamo mai avuto timori sul fatto che ci potesse accadere una cosa così. C’erano sì disordi­ni e sofferenze nella nostra zona, ma ne soffrivamo con la nostra gente. Quando sono venuti a prenderci, abbiamo capito chi e­rano e, dopo poche ore, essi stes­si ce lo hanno detto apertamen­temente: noi sia di Al Shabaab (gruppo di giovani islamici vicino ad al-Qaeda, ndr). Qual è stato il vostro primo pen­siero? Non abbiamo avuto il tempo di pensare a niente, ci hanno preso in pochi minuti e poi ci hanno portato via attraversando tutta la città. Cercavamo di gridare, ma per fortuna nessuno è intervenu­to perché sarebbe potuto succe­dere qualcosa di terribile a noi e a chiunque avesse cercato di aiu­tarci. Eravate riconoscibili come suo­re? No. Non avevamo nessun segno distintivo e poi i nostri rapitori non sanno cosa sono le suore. Ab­biamo solo avuto il tempo di ve­stirci sommariamente. Ci sono stati momenti difficili? Sì, abbiamo avuto paura. Ma ol­tre a questo, provavamo angoscia per il fatto di non avere nessuna notizia sulle nostre comunità. Suor Caterina, lei parla un po’ di somalo. Questo è stato un dono immen­so, perché ha permesso di stabi­lire subito un po’ di comunica­zione nel quotidiano. È stato un fatto provvidenziale. Il giorno della liberazione, come avete capito che era il momento "buono"? Quel mattino ci è stato detto di prepararci. Ci hanno dato il bur­qa per coprirci il viso e la mantel­lina per tutto il corpo. Più volte avete ripetuto che la preghiera è stata la vostra ànco­ra di salvezza. Potevate farvi il se­gno della croce o inginocchiarvi? No, per loro non sappiamo pre­gare, ce lo hanno detto. Ma noi lo sapevamo già, dopo tanti anni a fianco dei musulmani, anche se non sono tutti così. Molti musul­mani rispettano moltissimo la no­stra preghiera, la nostra vita. Ma questi non sono dei semplici mu­sulmani. Noi evitavamo qualun­que cosa che potesse suscitare tra noi e loro un qualsiasi discorso re­ligioso, per non trovarci in diffi­coltà. Avete perdonato i vostri rapitori? Non abbiamo mai avuto un sen­timento di repulsione e di odio. E questo è stato il primo miracolo. Avete vissuto in modo particola­re la vostra condizione di prigio­niere, rispondendo con la non violenza e non odiando chi vi te­neva segregate… È l’unico modo che noi sentivamo come "nostro", per poter vivere anche come religiose e cristiane. A chiunque diremmo che è l’uni­co modo per vivere una situazio­ne del genere. Questa esperienza cambierà il vostro modo di essere missiona­rie? Non credo, continueremo a per­correre il cammino che abbiamo intrapreso tanti anni fa. Se torne­remo con la nostra gente, ci sen­tiremo ancora più uniti a loro per­chè ci hanno dimostrato un affet­to incredibile. Abbiamo scelto di vivere solo di Provvidenza e tutto ciò che facciamo è grazie a tutte le persone che ci sostengono. Quanto vi fermate in Italia? Nel nostro periodo di prigionia ci siamo sempre ripetute di non pensare a ciò che accadrà doma­ni. Viviamo con intensità l’oggi. E adesso continuiamo a fare così…
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