domenica 27 agosto 2023
Con ben tre anni di anticipo sulla tabella di marcia l’Italia si adegua alla direttiva europea e smantella il simbolo di un’Italia che non c’è più. Resteranno solo negli ospedali e nelle carceri
Una cabina telefonica di Verona

Una cabina telefonica di Verona - .

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Sarebbe già una notizia curiosa in sé. In un Paese, come lo definiva Prezzolini, dove le uniche cose definitive sono quelle provvisorie, e dove il “ritardo sui lavori” fa parte della fisiologia, apprendere che le cabine telefoniche verranno smantellate con ben tre anni di anticipo sulla tabella di marcia è qualcosa di più unico che raro. Eppure, adeguandosi alla direttiva europea che prevede di modernizzare le telecomunicazioni dentro l’Unione, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), al termine di un summit con il placet degli operatori, ha sentenziato che Tim non è più tenuta a fornire il servizio pubblico ed è autorizzata dunque disfarsi delle 16mila cabine telefoniche.

L’amministratore delegato Tim, Pietro Labriola, conferma: entro il 2023, bye bye a tutte le cabine. Se calcoliamo che la prima venne posizionata il 10 febbraio 1952 in piazza San Babila, a Milano, possiamo notare quanto l’Italia abbia raccontato e si sia raccontata in questi settant’anni. D’accordo. Non hanno mai avuto, in Italia, il fascino ieratico delle colleghe inglesi, ma le cabine telefoniche hanno comunque indiscutibilmente rappresentato un pilastro del costume nazionale. Innanzitutto per quanto riguarda il concetto di fondo: da noi le cabine sono sempre state utilizzate per chiamare, non per ricevere telefonate. Una distinzione curiosa, rispetto, ad esempio, ai classici film americani dove vengono dettate le istruzioni alla tal cabina e si nota qualcuno correre disperatamente per raggiungerla prima che il telefono smetta di suonare.

La prima cabina telefonica a Milano, in piazza San Babila: fu inaugurata il 10 febbraio del 1952

La prima cabina telefonica a Milano, in piazza San Babila: fu inaugurata il 10 febbraio del 1952 - .

La cabina telefonica è stata un concentrato di antropologia urbana. Una buona osservazione avrebbe restituito lo spaccato di una città o di un paese. C’era quanto gravitava attorno alla chiamata: la durata, la posizione del mittente (chi se ne stava col gomito piegato, chi con gli occhi bassi, chi lontano dal ricevitore perché temeva germi, chi si guardava intorno per timore di essere scovato o perché, come beau gest, si affrettava per non far attendere chi aspettava il suo turno). Nelle località di villeggiatura, spesso, si creavano code e capannelli di persone che fremevano per poter salutare a casa rassicurando circa il bel tempo e il buon cibo. Sono (anzi, erano) uno dei ricordi più iconici del servizio militare: la chiamata a casa dalla cabina, non di rado tra lacrime e singhiozzi.

È interessante osservare le costruzioni in sé: quelle anglosassoni che tutti abbiamo in mente sono dotate di maniglie, le nostre erano contraddistinte da porte “a saloon” dove si spingeva per accedervi: era sottesa l’idea tachicardica dell’emergenza, del bisogno, di un’esigenza incipiente da risolvere con l’acceleratore. Tutti passavano da quella cornetta – anche quando il design aveva traghettato verso un’evoluzione della forma appunto di corno – e da quel disco con i numeri da ruotare (una sorta di ruota della fortuna inconscia, dove non si sa cosa ci si può attendere) e non di rado si sceglieva la cabina più appartata, anche se più distante; c’era perfino un elenco con le ubicazioni sebbene tutti ne avessero contezza circa le location. È la cosiddetta geografia dei luoghi, per dirla con Michela Murgia, che è geometria dei sentimenti. Ma la cabina telefonica non si esauriva solo nella chiamata, e dal momento che non c’è teorema senza corollari, questi erano rappresentati in primis dalle scritte sui vetri di plexiglass, paralleli ai murales, ma che consentivano più di semplici sfoghi incivili, i pennarelli serpeggiavano tortuosamente accennando a dichiarazione d’amore, echi di disperazione, ironie grottesche. Tutti leggevano, pochi, in verità, si indignavano. Erano gli antesignani dei social. Ma nella cabina telefonica ci si abbracciava anche, ci si baciava, ci si lasciava, qualche senza tetto a tratti si riparava. E poi c’erano i “gettoni del telefono”. Valore duecento lire, utilizzabili anche come resto.

Erano un simbolo, l’idea che la chiamata serbasse un valore particolare, qualcosa che non si compra con la moneta corrente, ma con un gettone speciale: già questo bastava a conferire fascino, esattamente come oggigiorno pulsano di stupore i bambini che chiedono ai genitori i gettoni da inserire sulla giostra al Luna park: un passepartout per un universo parallelo. L’ultimo gettone, come l’omonima canzone di Gigi D’Alessio, era l’ancora per quell’ultima frase, quell’ultimo tentativo di riavvicinare un amore compromesso. Poi quello zero che lampeggiava, la sensazione palpabile della fugacità del tempo. Poi il silenzio. Ora saranno smantellate, a eccezione di quelle in ospedali, caserme e carceri. In Italia sono molte, circa sedicimila si diceva, sebbene solo vent’anni fa fossero quasi centomila. Erano in coma funzionale da tempo: la media, infatti, era di un centinaio di chiamate l’anno per cabina, una telefonata ogni tre giorni quando andava bene. La loro scomparsa però denoterà un piccolo ma significativo cambiamento nell’assetto urbanistico, nell’ultimo mezzo secolo rappresentavano il contatto ideale tra un paese e l’altro, un rifugio e una sicurezza. In un’Italia così eterogenea architettonicamente, culturalmente, paesaggisticamente, le cabine erano una punteggiatura unitaria e rassicurante. Le salutiamo. E stavolta le abbracciamo, un po’ come si abbracciano gli alberi nella silvoterapia.

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