martedì 29 maggio 2018
«Un’occasione unica per chi ama immedesimarsi in modo diretto ed emotivamente coinvolgente nelle vicende più eclatanti della storia». Questo prometteva ai visitatori, la 63esima edizione di Militalia
Divise dei deportati e il mercato choc della Shoah
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«Un’occasione unica per chi ama immedesimarsi in modo diretto ed emotivamente coinvolgente nelle vicende più eclatanti della storia». Questo prometteva ai visitatori, la 63esima edizione di Militalia, «la principale manifestazione del settore e obbligato punto di riferimento e contatto per tutti gli appassionati del collezionismo militare», svoltasi sabato e domenica scorsi al Parco esposizioni di Novegro (Milano). Tra le decine di espositori di cimeli e oggettistica, molti dei quali con espliciti (e nostalgici?) riferimenti ai regimi fascista e nazista, c’è stato anche chi, come documentato da un quotidiano, ha pensato bene di mettere in vendita persino le divise dei deportati nei campi di concentramento.

Arrivando a dare un prezzo (11mila euro) a una giubba stinta e sdrucita con evidenti macchie scure. Segno che esiste un mercato dell’orrore che stima il valore della “merce” e fissa il prezzo, come si fa con qualsiasi altro oggetto messo in commercio. Solo che, dietro (e dentro) quella giubba ci sono sei milioni di uomini, donne e bambini passati per il camino. Loro sì considerati «pezzi» dai criminali nazisti e come tale catalogati con un numero.

Al proprietario di quella giubba, un viennese classe 1896 finito a Dachau, era stato assegnato il 24597. «Credo proprio sia sangue», dice il venditore, riferendosi alle macchie color ruggine, evidentemente orgoglioso di poter mettere in vendita un vero pezzo originale, con ancora il triangolo rosso dei detenuti politici e i segni delle violenze subite da chi l’ha indossato. Davvero un’occasione unica per «immedesimarsi» con la storia del periodo.

Che, forse, il commerciante non ha studiato o non ha capito. Per un ripasso potrebbe visitare il campo di Auschwitz- Birkenau, percorrendo, magari con la neve e il vento gelido del Nord (così, per «immedesimarsi» meglio) il tratto di strada che separa la Judenrampe, dove arrivavano i deportati e avveniva la prima selezione, dalle camere a gas e dal Krematorium, dove, spesso a distanza di poche ore dall’arrivo, finiva la vita dei prigionieri. Qui veniva usato il famigerato Zyklon B, materiale che a contatto con l’aria e il calore dei corpi ammassati, sprigionava un gas mortale. «Avevo qualche barattolo. Li ho venduti tutti a 400 euro», aggiunge il venditore. Avrà anche detto agli «acquirenti » che cosa succedeva ai prigionieri che respiravano quella sostanza? Quando si riaprivano le camere a gas ed entravano i sonderkommando - i prigionieri ebrei adibiti alla ripulitura dopo che i deportati erano stati gasati - le pareti e persino il soffitto erano ricoperti di sangue, vomito e altri umori, tanto che, ogni volta, si doveva ripassare tutto con la calce per cancellare le tracce.

Al vicino museo, il nostro commerciante, potrebbe poi vedere le teche di vetro che conservano le sette tonnellate di capelli trovati dai liberatori del campo (e che i nazisti usavano per produrre stoffa), oppure il 1.185.345 capi di vestiario maschili e femminili, i 460 arti artificiali e le 43.525 paia di scarpe. Con quelle piccole e piccolissime in primo piano. Più «diretto ed emotivamente coinvolgente» di cosi?

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