sabato 22 novembre 2008
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«Vivo la stessa situazione di Beppino Englaro ma ho fatto una scelta diversa. Sia chiaro che non lo giudico. Io giudico i giudici e dico che quella sentenza è una vergogna nazionale oltre che un pericolo per tutti coloro che vivono in stato vegetativo». Anche quando parla del «nemico», Claudio Taliento mantiene quel suo tono sereno. Merito della moglie Ada. La accudisce dal 23 giugno del 2003, data dell’emorragia cerebrale, e lei gli regala ogni giorno, ci dice, «lo spettacolo della vita». Il «nemico» di Tagliento e di Risveglio, la onlus di cui è vicepresidente, è lo stesso di tutti coloro che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per salvare Eluana. Questo nemico non è Beppino Englaro. Le 34 associazioni che hanno chiesto l’intervento dell’Europa se la prendono invece con chi ha autorizzato «il tutore a far morire di fame e di sete una persona in stato vegetativo sulla base di una volontà espressa in età giovanile e sostenuta dalla testimonianza di un terzo» dice Taliento.L’amarezza di questo manager in pensione è quella di chi combatte un potere non solo invisibile, ma anche cieco e sordo. «Non ne faccio una questione di fede, ma di diritto - ci spiega -. Le sentenze dei giudici, dalla corte d’appello alla Cassazione parlano di un’irreversibilità di condizioni che non è scientificamente provata, per quanto dopo sedici anni la speranza, lo ammetto, possa affievolirsi. I giudici, inoltre, sostengono che in quella condizione non si prova dolore ma migliaia di pagine di trattati scientifici dimostrano il contrario. E lo prova anche la nostra esperienza quotidiana». Risveglio associa famiglie di disabili con gravissime cerebrolesioni acquisite dai più diversi orientamenti politici e religiosi e si può dire lo stesso della Federazione nazionale associazioni trauma cranico: «la Cassazione fa giurisprudenza, quella sentenza è un passo gravissimo verso uno Stato che autorizza a spegnere la vita altrui» commenta il presidente Paolo Fogar, anche lui promotore del ricorso. Ha aiutato il cognato a vivere dignitosamente per quindici anni, dopo un rovinoso incidente automobilistico; ora lotta perché a chi si trova nelle condizioni di Eluana siano riconosciuti i diritti fondamentali alla vita e alle cure. «I livelli minimi di assistenza - spiega - non prevedono la loro patologia e i medici di famiglia fanno i salti mortali per assegnare una carrozzella». La federazione custodisce storie di amore e di dolore, ma anche di disagio economico: «dai fisioterapisti alle ristrutturazioni edili necessarie per ospitare chi si trova in queste condizioni, le spese sono altissime - precisa Fogar - e le famiglie sono costrette a fare tutto da sole. Quando, poi, non si raggiunge il livello di invalidità di Eluana, la società abbandona il paziente ai postumi dell’incidente, che possono condizionargli la vita se non sono affrontati con una riabilitazione tempestiva. In un simile contesto, uno Stato che opta per l’eliminazione di chi non riesce ad aiutare è una vergogna». Di «barbarie» parla apertamente Tagliento, che racconta così il suo "dialogo" con Ada: «lei strizza gli occhi, digrigna la bocca, irrigidisce i muscoli se ha un disagio o un dolore. Può sembrare terribile, invece è un rapporto che si alimenta di amore e non è necessario credere in Dio per vivere questi momenti, difendere il diritto di chi li vive e combattere la sofferenza laddove si manifesta». Lo conferma Paola Chiambretto, psicologa, segretaria di Vive, l’associazione che raggruppa specialisti e famigliari di persone in condizione di vita vegetativa. Anche in questo caso si tratta di un’associazione di associazioni, cui collaborano famiglie dai più diversi orientamenti culturali e religiosi. La Chiambretto si occupa di pazienti nelle condizioni di Eluana al Vitaresidence, una struttura specializzata del Comasco. «Siamo disponibili a ragionare di testamento biologico - racconta - ma non a permettere che una persona sia lasciata morire di fame e di sete e questo a prescindere da qualsiasi visione religiosa. La persona in stato vegetativo è un disabile grave, non è un paziente in stato terminale, non è morente e non è attaccato a una macchina, sente il dolore ed esprime disagio o fastidio attraverso la mimica del volto o la contrazione degli arti. Nella mia attività professionale non ho conosciuto nessuno di loro che non riesca in nessun modo a far comprendere il proprio disagio ai famigliari, che possono decodificarne sospiri, colpi di tosse, lacrime...» Se, sottolinea, «non sono lasciati soli con il loro dramma».
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