martedì 30 dicembre 2014
Finisce a gennaio l'appalto delle cucine di 10 carceri. I cappellani e la Caritas italiana scrivono al ministro prima dell'incontro di oggi.
Statalismo oltre le sbarre? di Giorgio Paolucci
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Dieci anni di sperimentazione e di buoni risultati non bastano. A meno di cambiamenti dell’ultim’ora, il 15 gennaio le cooperative sociali che gestiscono le mense di nove carceri italiane (tra cui Milano Bollate, Rebibbia, Trani, Siracusa e Padova) dovranno riconsegnare le chiavi delle cucine. Mettendo fine a un’esperienza che - a detta degli stessi direttori delle carceri - è stata «oltremodo positiva». «Tornare a un modello in cui i detenuti, ogni due o tre mesi, si alternano a gestire le cucine, mi pare un grosso passo indietro», commenta  don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri. «Il lavoro – aggiunge il sacerdote – quando è fatto con continuità e offre formazione è uno degli strumenti con cui la persona detenuta riconquista dignità. E così si allontana dalla criminalità. Iniziative come questa non dovrebbero essere chiuse: investire sul lavoro in carcere favorisce la sicurezza di tutta la società».  I dati sulla recidiva dimostrano il buon esito di questi investimenti: chi in carcere inizia a svolgere un’attività professionalizzante, più difficilmente torna a commettere nuovi reati tornato in libertà. Solo due su 100, a fronte di un tasso di recidiva del 70% tra quanti scontano tutta la pena senza far nulla. «A distanza di anni sono certamente necessarie delle verifiche, ma le scelte che ne conseguono devono tener conto dei risultati che, in questo caso, affermano tutti la positività dell’esperienza – commenta  don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana –. Non si può chiudere un’attività dicendo che la sperimentazione ha funzionato». La decisione di cessare la sperimentazione sembra essere dettata da motivi economici: Cassa delle Ammende, infatti, non finanzierà più il progetto ritenendo conclusa la fase di start-up. «Solo per un ipotetico risparmio momentaneo si eliminano, con un colpo di spugna, dieci anni di fatiche, sofferenze, rinnovate speranze, possibilità di futuro – sottolinea don Soddu – posto che ci sia un risparmio economico, a quanto ammonta il costo sociale della scelta?».  Eppure, lavori di questo tipo, che offrono formazione e competenza, sono quelli che danno le migliori garanzie, a differenza delle 'mercedi', i lavori alle dipendenze dall’amministrazione penitenziaria che i detenuti svolgono a rotazione. «Il carcere deresponsabilizza le persone, costrette a stare in cella a far nulla. La continuità del lavoro, il rispetto delle regole e degli orari invece fanno acquistare dignità», sottolinea don Virgilio Balducchi. «Se si crede che offrendo alla cooperazione sociale la possibilità di gestire le lavorazioni ci sia un miglioramento della qualità e la possibilità di reinserimento, allora bisogna essere coerenti e finanziare questo percorso», aggiunge don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia 'Nuovo Complesso' e direttore della cooperativa 'E-Team' che gestisce le cucine con la cooperativa 'Men at work'. In questi dieci anni nelle cucine di Rebibbia sono passati almeno un centinaio di detenuti che, oltre alla formazione professionale, hanno avuto anche il sostegno di un 'ufficio sociale' che ne ha seguito il percorso.   «In carcere – spiega don Spriano – tante persone non sono abituate al lavoro: poveri, emarginati, persone senza una professionalità che non hanno mai visto una busta paga. Proprio qui si avvicinano per la prima volta a un’esperienza lavorativa». Un impegno adeguatamente remunerato: dagli 800 euro al mese in su. Mentre chi lavora in 'mercede' - a rotazione e poche settimane l’anno - si accontenta di 200 euro.  Per don Marco Pozza, cappellano del 'Due Palazzi' di Padova, la decisione di porre fine alla sperimentazione delle cooperative nelle mense pone di fronte a «un dubbio costituzionale: come rieducare il detenuto se lo si priva del lavoro e della sua dignità?». Nel carcere dove è cappellano da tre anni, spiega, attraverso l’attività della cooperativa Giotto «ogni giorno vedo che il lavoro produce speranza più che salario, impegno dove regnava l’ozio, sorrisi nella palude di desolazione ». Le ultime speranze di un cambio di direzione sono riposte nell’incontro che il ministro Orlando avrà stamane con i responsabili delle coop e i Garanti regionali dei diritti dei detenuti.
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