venerdì 6 gennaio 2017
Un conto è una proposta politica, un altro un referendum abrogativo
L'ampliamento della norma e il dubbio che sia una sorta di mossa «suicida»
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Un conto è una proposta politica, un altro un referendum abrogativo; una cosa è una 'Carta dei diritti' nella quale si può chiedere di tutto, un’altra è la chiamata alle urne dei cittadini per cancellare una norma. I due piani, differenti per natura e finalità, sembrano invece confondersi nell’iniziativa della Cgil, sulla quale sono state raccolte oltre 1 milione di firme e che va ora al vaglio della Corte costituzionale.

In particolare per ciò che concerne la materia della tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, rispetto alla quale il sindacato di Corso d’Italia si propone non solo di abolire le modifiche alla norma originaria dello Statuto dei lavoratori introdotte prima con la riforma Fornero e, da ultimo, con il Jobs act, ma di fatto anche di estendere la 'tutela reale', cioè la reintegra nel posto di lavoro, anche ai dipendenti delle aziende con più di 5 dipendenti (e non 15 come previsto per le imprese non-agricole dalla legge 300 del 1970). Ed è su questo, in definitiva, che si appuntano non solo le obiezioni dell’Avvocatura dello Stato, ma anche di molti giuslavoristi e operatori del mercato del lavoro.

La stessa Cgil ammette il problema nella scheda di presentazione dei referendum a cura dell’ufficio legislativo del sindacato: «Il quesito... con l’abrogazione parziale proprio del comma 8 del testo attuale dell’art. 18 dello Statuto, non farebbe altro se non allargare lo spettro applicativo di questa medesima soglia dei cinque dipendenti, rendendola applicabile (anche) ai lavoratori e alle imprese che operano in settori diversi da quello dell’agricoltura». Un’operazione che il medesimo ufficio ritiene «assolutamente normale e... ammissibile».

Si vedrà come lo valuterà la Consulta, ma data per scontata la professionalità dei giuristi Cgil, viene quasi il dubbio che la questione dell’allargamento dell’articolo 18 sia una sorta di mina-suicida per evitare il responso delle urne. Su una materia, tra l’altro, sulla quale in passato è già mancato il quorum per analoghe consultazioni.

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