martedì 29 gennaio 2019
Furono italiani i primi a concepire l'opera, a elaborare il progetto, compiere i sopralluoghi. 4mila connazionale lavorarono agli scavi, in condizione di semischiavitù
Il canale di Panama (foto Riccardo Maccioni)

Il canale di Panama (foto Riccardo Maccioni)

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Cristoforo Colombo lo cercò invano durante il quarto viaggio transatlantico. Anche Hernán Cortés gli diede la caccia. Solo Vasco Nuñez de Balboa riuscì, però, a trovare lo sbocco fino all’altro mare, quell’oceano potente e burrascoso che, per ironia della sorte, venne chiamato Pacifico. Il fondatore di Panama – il cui volto è impresso sull’omonima moneta nazionale – non potè, invece, individuare l’agognato “punto di connessione” tra i due mari nei meandri di terra e mangrovie dell’Istmo. Perché - come presto si resero conto i conquistadores – esso non esisteva.

Filippo II, però, non si rassegnò alla geografia: fu il sovrano di Spagna e d’America il primo, non solo a concepire, bensì a mettere in marcia, il progetto del Canale interoceanico. E per realizzarlo si rivolse al romano Giovanni Battista Antonelli. Data la scarsa tecnologia dell’epoca, l’impresa non riuscì. Antonelli, tuttavia, divenne il primo dei molti italiani le cui storie si intrecciano con il Canale di Panama. “Antonelli, inoltre, realizzò altre importanti opere a Panama, come le fortezze di Nombre de Dios. Oltre a ideare il tracciato della terza capitale del Paese, l’attuale Antigua, in Guatemala”, spiega Dante Liano, scrittore, docente di Letteratura ispanoamericana all’Università Cattolica e curatore del “Dizionario biografico degli italiani in Centroamerica” (edito da Vita e Pensiero).

Ci vollero più tre secoli di progressi scientifici perché l’idea del Canale riprendesse slancio. Stavolta, a riproporla alla neonata Repubblica colombiana – di cui Panama era parte – furono i francesi. “Anche loro affidarono lo studio a un italiano, il lucchese Felice Napoleone Garella. La sua ricerca fu pubblicata a Parigi nel 1844. Gli succedette nell’incarico Agostino Codazzi, di Lugo di Romagna, che ci lavorò fino al 1850, anno in cui si iniziò a passare dalle parole scritte ai fatti. A svolgere i sopralluoghi furono ancora due italiani, Oliviero Bixio e Guido Musso”, sottolinea Liano.

Nel 1882, il Canale prese forma con l’avvio della linea ferroviaria tra Panama e Colón. Centinaia di migliaia di persone, da quaranta nazioni, affluirono nell’Istmo alla ricerca di impiego. L’opera mastodontica richiedeva un’ampia gamma di mestieri: operai, cuochi, ingegneri, tuttofare. Gli italiani, ancora una volta, furono in prima linea. Dei quasi 44mila immigrati “arruolati”, al principio, un 4,4 per cento veniva dalla Penisola, il secondo gruppo europeo più numeroso dopo quello degli spagnoli, il 23,3 per cento. Il resto, in maggioranza, era delle Antille.

“A partire dal 1904, con il passaggio della costruzione del Canale nelle mani degli Stati Uniti, il numero degli italiani si stabilì intorno alle 4mila persone. Come il resto della manodopera, lavorarono in condizioni di semischiavitù, senza nessuna protezione né da parte del governo panamense che di quello di Roma, che si disinteressò di loro”, racconta l’esperto. Tantissimi si ammalarono di febbre gialla, all’epoca endemica, altri morirono, alcuni rimasero invalidi o mutilati. I sopravvissuti, infine, trovarono poche opportunità, una volta terminata l’opera, il cui sistema principale – quello dei giochi di chiuse per superare i dislivelli delle acque – è stato mutuato dalle intuizioni di Leonardo da Vinci. “Rimasero, dunque, in pochi: appena un centinaio Il resto si disperse per il Centroamerica, qualcuno fece ritorno a casa”.

Questo spiega perché attualmente la comunità italiana non arrivi a novemila persone. Il sogno latinoamericano ha continuato, però, ad attrarre i connazionali fino agli anni Sessanta del Novecento: la maggior parte, però, si indirizzò verso Sud, in particolare Argentina, Brasile e Venezuela. Poi c’è stato il “miracolo economico”, l’Europa – anche grazie al processo di riunificazione – ha inaugurato una lunga epoca di stabilità proprio quando l’America Latina subiva i “danni collaterali” della Guerra fredda. La storia ha, così, rimescolato le carte della geopolitica. E le direzioni dei flussi migratori.

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