mercoledì 8 febbraio 2023
Mariella Enoc spiega il passo indietro compiuto dalla presidenza dell’ospedale vaticano. Poi rilancia: «Il Servizio sanitario nazionale è un valore, ma è arrivato il momento di una revisione»
Enoc: «Vado via dopo anni straordinari, il Bambino Gesù crescerà ancora»

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«Lascio l’ospedale in un momento positivo. Se non fosse in previsione l’edificazione del nuovo polo, sarei rimasta fino alla fine del 2023. È l’età a impormi questa scelta». Mariella Enoc, presidente dimissionaria del Bambino Gesù di Roma, che ha guidato dal 2015, sgombra il campo da letture fuorvianti e spiega così il suo passo indietro comunicato alla Santa Sede – proprietaria del nosocomio pediatrico – e al personale, sabato scorso.

Presidente, lei sta lavorando dal 2021 alla nuova sede che sorgerà nel sito dell’ex ospedale Forlanini di Roma. C’era ancora del tempo a sua disposizione, prima della scadenza naturale del mandato, per supportare il progetto…

Lavoro alla nuova struttura da un anno e mezzo. Ho posto le basi del progetto, interfacciandomi con i governi Draghi e Meloni. Dopo le elezioni del prossimo fine settimana, sarà necessario definire il piano finanziario che, oltre alla Santa Sede, auspico coinvolga sia il Governo nazionale sia quello regionale. Dopodiché il progetto potrà decollare. Io, avendo compiuto 79 anni e avendo il mandato in scadenza quest’anno, non potrei proseguire perché le regole del Vaticano sono chiare: a 80 anni bisogna lasciare. Andare oltre non sarebbe stato corretto nei confronti di chi, questo progetto, avrà il compito di portarlo avanti. Questo è il motivo vero, non ve ne sono altri, nessuna difficoltà o incomprensione.

Perché un nuovo ospedale?

Oggi abbiamo spazi limitatissimi rispetto ai moderni standard internazionali. Facciamo fatica persino a trovare posto per la Pet-Tac. Questo è il motivo per il quale ho sentito molto la responsabilità del nuovo ospedale.

Quanto costerà?

La stima è di circa 400 milioni.

Ha parlato dell’investimento con la premier Meloni?

Sì, certo.

Cosa vi siete detti?

Mi ha ascoltata con rispetto e in un clima molto collaborativo, in virtù della stima che la premier nutre da tempo per l’ospedale. Che, voglio ricordarlo, è il primo polo pediatrico d’Europa e, come tale, un vanto per l’Italia. Su questa stima si basa il desiderio di poter aiutare il Bambino Gesù a realizzare un futuro degno della sua storia e del suo prestigio.

Dieci giorni fa lei ha rivisto anche papa Francesco. Con lui di cosa avete parlato?

Tutte domande semplici, vedo…

Solo una sana curiosità.

Posso dirle che abbiamo dialogato a lungo. E se non ci fosse stato il problema della carta d’identità, il Santo Padre sarebbe stato contento di vedermi ancora al lavoro per il Bambino Gesù. Il Papa sta ora guardando con grande attenzione alla mia successione. Ancora una volta mi ha espresso la sua fiducia. Guardi, in questi anni saperlo vicino mi ha aiutata tantissimo. E ancora lo sentirò vicino in futuro.

Non da pensionata, immagino…

Lei mi vede pensionata?

Non direi.

Ecco, appunto. Non ho lo spirito della pensionata, purtroppo. Farò altre cose perché mi sento di poter dare ancora un contributo. D’altra parte, da pensionata, cosa potrei mai fare? Finché me la sento continuerò a lavorare.

A proposito di contributi. Lei resta procuratrice dell’Ospedale Valduce di Como?

Certo. Sono molto legata a questa struttura della Congregazione delle Suore Infermiere dell’Immacolata, e orgogliosa di averla salvata da un triste destino. Ora sta andando molto bene, ha un centro di riabilitazione tra i più importanti d’Italia, Villa Beretta. Nel Valduce d’ora in avanti potrò investire molto più tempo.

Tanti ospedali cattolici sono in sofferenza. È solo un problema di bilanci, costi e rimborsi?

È un’altra domanda difficile, mi creda. È un peccato perché il mondo della sofferenza e della cura è parte del messaggio evangelico, non ce lo siamo inventati noi. Mi fa molto soffrire quando ci si dimentica di questo aspetto. Torno al Valduce: l’ho trovato in una situazione delicata, oggi è rilanciato e desidero che resti un ospedale cattolico, null’altro. Ma non per la cattolicità in sé ma perché questi istituti devono fare quello che il Vangelo dice di fare. Ci sono tante nuove povertà che le nostre strutture, in maniera profetica, potrebbero accogliere.

Per esempio?

Al Bambino Gesù abbiamo creato un centro di cure palliative, il maggiore d’Italia, per rispondere a una nuova povertà: i bambini che non possono essere guariti hanno il diritto di essere curati. Con lo stesso spirito sta partendo la costruzione di una struttura per i disturbi alimentari, i più diffusi dei quali sono anoressie e bulimie. Questo è il messaggio di papa Francesco. Avverto una passione sofferente quando vedo che molto di questo spirito si sta perdendo.

La sanità in Italia attraversa il momento forse più delicato dal dopoguerra. E i medici sono diventati merce rara. Come si corre ai ripari?

Per formare un medico servono 10 anni. Al momento bisognerà puntare sugli specializzandi degli ultimi anni e su quelli di provenienza estera. Il Servizio sanitario nazionale non va toccato, è un valore peculiare che l'Italia non può perdere, ma è arrivato il momento, a più di 40 anni dall’istituzione, di revisionarlo. L’invecchiamento della popolazione e la cronicità delle malattie lo stanno rendendo inefficiente. Facciamo in modo che pubblico e privato collaborino e lavorino di più insieme. Non può il pubblico occuparsi solo delle prestazioni più costose e il privato solo di quelle più remunerate. Bisogna trovare una sintonia, valorizzando i privati non profit, come il Bambino Gesù o il Valduce, consentendo loro reinvestimenti in innovazione, personale, ricerca.

L’autonomia è un’opportunità o un rischio?

Ahimè, io la vedo più come un rischio.

Nel suo mandato lei ha considerato prioritari tanto la ricerca quanto la rete che il Bambino Gesù ha saputo costruito all’estero, specie nei Paesi più poveri: sarà così anche in futuro?

Sì, l’ospedale ha ampliato sempre più la sua ricerca: si tratta di seguirla, coltivarla, non bloccarla mai, stipulando nuovi accordi internazionali perché la ricerca ha bisogno di dialogo costante con il mondo. Nello stesso tempo abbiamo cercato di portare il nostro sapere, come dono, a tutti coloro che non ce l’hanno: vale per i Paesi più poveri, nel campo della formazione, ma anche per molte nazioni evolute che però, su certe materie, hanno ancora bisogno di crescere.

Si può dire la stessa cosa anche per alcune aree italiane?

Sì, ma le citerò un esempio positivo. È il caso della Calabria. Vogliamo evitare ai bambini di sottoporsi a faticosi spostamenti da noi, a Roma, per prestazioni di media e bassa intensità. Facevamo 10.000 visite all’anno a pazienti calabresi. Con la Regione, e con le strutture sanitarie locali, abbiamo fatto un accordo che consente ai nostri medici di andare in Calabria e lavorare assieme ai loro colleghi calabresi. Per noi è uno sforzo importante. Ora il nostro ospedale chiama le famiglie calabresi e fissa l’appuntamento, che una volta si teneva a Roma, direttamente in Calabria, con lo stesso specialista. I cittadini sono sollevati e fiduciosi. Questa è una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato.

Come vede il “suo” ospedale negli anni futuri?

“Suo”? No, l’ospedale non è mio. Per me lasciarlo è una sofferenza perché l’ho amato come si fa con un figlio ma il figlio non è una proprietà... Il futuro? Continuerà a crescere e avrà sempre davanti la sua missione. “Rendere il Bambino Gesù sostenibile per consentirgli di compiere la sua missione” è stato il mio motto. Guardi, Turchia e Siria sono sconvolte dal terremoto. Se ci inviassero bambini e ragazzi, saremmo pronti ad occuparci di loro. Ecco cosa intendo per missione. Mi creda: si chiude per me un periodo bellissimo e una straordinaria avventura al timone di un ospedale speciale, una grande opera di carità della Chiesa nella sua universalità.

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