Alessandro Gallo
«Non basta la scuola, dobbiamo investire sulla famiglia. E invece non si fa. Possiamo portare in strada un esercito di insegnanti ma il problema sono ragazzi che non conoscono cosa sia l’eredità di un padre o di una madre, o ragazzi che si lasciano schiacciare dall’eredità dei padri e delle madri e nello stesso tempo non hanno nessun dialogo con le proprie famiglie. A Napoli l’agenzia più importante, la famiglia sta facendo acqua da tutte le parti». È la dura analisi del fenomeno delle baby gang di Alessandro Gallo, 31 anni, figlio del camorrista del rione Traiano, Gennaro Gallo e cugino di Cristina Pinto, “Nikita” la prima donna killer della camorra.
Attore, autore teatrale, scrittore di successo (vari libri molto autobiografici), laureato al Dams, dal 2005 vive in Emilia Romagna, sposato con due bambini di 4 anni e 2 mesi, lavora alla 'Corte ospitale' di Rubiera, il centro di formazione e ricerca per i teatro. «Propongo spettacoli teatrali e faccio attività formativa per bambini e adolescenti. Sono risucchiato nel mondo del teatro e in quello dei ragazzi». Ma non ha abbandonato i ragazzi della sua città. «Quando li incontro, sia nel carcere minorile che in una scuola disagiata, passo più tempo a farmi raccontare il loro mondo che il mio. Non voglio insegnare nulla. Li ascolto, e di cose da dire ne hanno tantissime, anche troppe, e cerco di capire quanti margini ho di entrare nelle loro storie, confrontarmi e dire "sai anche a me è capitato questo". Ho un background che fa presa su di loro. Avere una storia legata al crimine ha un valore aggiunto, una sorta di referenza così posso guardare negli occhi anche il ragazzino figlio di qualche camorrista, che magari pensa 'ma fammelo ascoltare'. E poi gli parlo di altro che di camorra ». Ma poi, aggiunge, «torno a casa un po’ malinconico. Mi piacerebbe un domani poter costruire qualcosa a Traiano, che sta vivendo una situazione più difficile di quella che racconta la tv. Prima o poi tornerò a casa».
Cosa sta accadendo a Napoli?
Abbiamo un po’ di memoria corta. Soprattutto nei quartieri di periferia i ragazzi hanno sempre usato un tipo di linguaggio e un tipo di modalità di azione bullesca o addirittura camorrista. Piuttosto resto meravigliato di fronte alla politica che chiede aiuto agli insegnanti. Quello che mi preoccupa di più è perché nessuno mette sul tavolo l’argomento più importante, cioè la famiglia.
Dunque la cultura non basta.
Ci sono tre mondi che non dialogano più, cultura, scuola e famiglia. Bisogna discutere di genitorialità. Davanti a noi abbiamo una generazione di ragazzi liquidi, che ci scappano di mano. Come possiamo chiedere un aiuto solo alla scuola, se poi questi ragazzi rientrano in casa e trovano situazioni precarie da un punto di vista affettivo? Ragazzi che mancano di sentimenti e di emozioni che la scuola e la cultura non possono assolutamente colmare.
Ma con lei la cultura sembra aver funzionato...
Non posso dimenticare la mia professoressa che, dopo settimane di prove, non aggiornava il preside, ma raccontava ai genitori quello che noi stavamo facendo. Era dialogo, anche con genitori che di solito litigavano coi professori.
Lei ha avuto la fortuna di un completo appoggio di sua madre, a fronte delle assenze di suo padre.
La figura femminile a Napoli, soprattutto nei quartieri di periferia, è importantissima, molto più della stessa scuola. Non sono mai stato un ragazzo tranquillo, anzi sono sempre stato irrequieto. Soprattutto durante le medie eravamo in balia del quartiere e ci adeguavamo.
Cosa l’ha salvato da imboccare strade peggiori?
Il giusto dialogo tra scuola e famiglia che hanno investito sul mio talento. È quello che manca a questi ragazzi. Io sono protagonista di una bella storia e mi farebbe piacere la potessero vivere anche questi ragazzi che fino a ieri avrebbero ammazzato un militare che difendeva un loro coetaneo. Si dice che sono vuoti, che non hanno nulla, e invece qualcosa hanno. Bisognerebbe solo capire come renderli protagonisti. Loro pensano di esserlo come lo sono i personaggi di una serie tv violenta, mentre potrebbero essere protagonisti anche in altro modo.
Influiscono le varie Gomorra televisive?
Non è certo Gomorra che ha trasformato Napoli in un campo di battaglia e i ragazzi in baby criminali. C’è un’emergenza sociale e chi si occupa di cinema, tv, teatro, deve porsi delle domande su quali ricadute possa avere su un ragazzino il linguaggio che hanno scelto. Quando guardo Gomorra nelle scuole del Nord, vedo un approccio di schifo a un mondo lontano, mentre a Napoli sanno quello che stanno guardando e sanno che è molto più facile diventare come quei personaggi. Può accadere che si possano lasciar trascinare, però anche senza Gomorra basta poco. Ci sono state spinte propositive bellissime ma poi si rimane soli. E chi è solo sceglie poi il branco.
Però lei la strada l’ha trovata al Nord, dove è più facile. È così o è possibile anche al Sud?
Anche a Napoli ci sono belle storie di riscatto e di speranza. Basti pensare a quello che fa don Antonio Loffredo alla Sanità, rione di cui si parla solo come luogo di 'stese' mentre don Antonio ha creato lavoro. Esistono gli eroi? Per me l’eroe è chi in un quartiere come la Sanità, con tante difficoltà, fa attività teatrale o apre una cooperativa. È possibile se la politica ha il coraggio di replicare quel modello in tutti in quartieri più difficili. Ma se diamo la responsabilità solo a un uomo di guardare al futuro di questi ragazzi non ce la faremo.
Cosa pensa dell’appello del magistrato Ardituro che ha detto «da soli non ce la facciamo»?
La giustizia è solo il capitolo finale. Si può evitare di scriverlo e scriverne altri solo se si ha il coraggio di guardare a quello che accade a una città spaccata in due, tra chi, politico e cittadino, pensa che vada tutto bene e che invece il problema sia Gomorra, e chi dice che va tutto male. Non si può nascondere che c’è un’emergenza sociale tangibile. Ma cosa ci ha fatto tornare indietro? È una domanda che dobbiamo farci tutti. In primo luogo la politica. Per dare risposte utili, per investire.