domenica 15 maggio 2016
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MILANO Marco e Lilli abitano a Roma. Si conoscono, si frequentano, si amano, decidono di andare a vivere insieme. Ma non tutto va per il verso giusto. Lui è un esperto di finanza. Lei erede di una importante dinastia industriale. Interessi diversi, abitudini spesso inconciliabili. Quando nasce Luca la loro storia è già passata attraverso una serie di rotture e di riaggiustamenti che ha lasciato entrambi disorientati. Tirano avanti ancora un po’ ma ormai la fiducia reciproca appare compromessa e le strade irrimediabilmente divergenti. Ma c’è da tutelare il piccolo, permettergli di continuare ad avere, come suo diritto, un padre e una madre. Il piano per l’affido condiviso che Marco e Lilli (nomi di fantasia) firmano davanti al giudice, sembra quanto di più conciliante si possa immaginare. Collocamento presso la madre, fine settimana alternati e poi, al compimento dei due anni, permanenza presso il padre anche di notte, assegno mensile di 500 euro (per quanto lei non ne abbia assolutamente bisogno), passaporto, permesso alla madre di trascorrere due mesi all’estero con il piccolo. Una scelta che potrebbe apparire strana se non si dicesse che la coppia ha già vissuto per un lungo periodo in un Paese del Sudest asiatico. Ad un certo punto sembrava anzi che il trasferimento dovesse essere definitivo, tanto che lui aveva avviato una piccola attività imprenditoriale. Poi le prime incomprensioni, le difficoltà ad andare avanti e la decisione di tornare in Italia. Ma per Lilli quel clima, quel mare e quei paesaggi incantati rappresentano una suggestione così potente da chiedere e da ottenere un “bonus” di due mesi ogni anno per rimanere all’estero con il bambino. E lui lo concede. «Non avrei immaginato che la mia generosità avrebbe finito per rappresentare la mia condanna», commenta ora Marco. Purtroppo la situazione si complica ancora di più. Lilli parte con il piccolo per l’Estremo Oriente e alla scadenza dei due mesi pattuiti, chiede una piccola de- roga. «Un paio di settimane e poi torno». Poi le due settimane diventano altri due mesi. Lui non resiste più, desidera vedere il figlio e raggiunge l’ex compagna. «Ho scoperto che aveva iscritto il piccolo ad una scuola materna anche se, non avendo bisogno di lavorare, avrebbe potuto tranquillamente badare a lui. Anzi, poteva permettersi di avere tutti gli aiuti possibili, ma in casa, senza portare nostro figlio, che all’epoca non aveva neppure tre anni, in quell’asilo». Ma Lilli non torna sulle proprie decisioni. Ormai si sente perfettamente integrata in quella realtà. Ha acquistato una casa e un’auto. È felice che il piccolo parli soltanto in inglese. Quando finalmente, ascoltando le preghiere della famiglia e le minacce dell’ex partner, torna finalmente in Italia, si apre una breve parentesi di serenità. Ma è solo un’illusione fugace. Siamo nell’agosto dello scorso anno. Lilli riparte per il Sudest asiatico con il piccolo Marco e non torna più. «Ho fatto mille telefonate, l’ho denunciata per sequestro di minori, ha mandato un esposto alla questura della sua città per chiedere la revoca del passaporto. Tutto inutile ». In realtà la questura investe del caso la nostra ambasciata in quel Paese e la procedura si mette in moto. Di fronte al mancato rispetto degli accordi e alle richieste del padre, l’ambasciata riconosce la legittimità della richiesta e comunica alla donna che il passaporto è stato ritirato. Ma lei fa orecchie da mercante e non succede proprio nulla. Come a nulla serve un nuovo esposto presentato da Marco alla procura dei minori. «Ho speso decine di migliaia di euro con gli avvocati, ho sviluppato una patologia psicosomatica, il mio lavoro è in bilico per tutte le assenze accumulate a causa di questa vicenda, ma non c’è modo di far rispettare la legge», osserva sconfortato Marco. «Purtroppo – conclude – questo sistema ti induce alla resa. Ti senti una vittima impotente. Ma cosa dirò domani a mio figlio quando mi accuserà di non essergli rimasto accanto?». ( L. Mo.) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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